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Storytelling - Mullholland Drive - Ghost World
Anno: 2001
Regista: Todd Solondz; David Lynch; Terry Zwigoff;
Autore Recensione: maqroll
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 03-12-2001


Solondz, Zwigoff, Lynch a Torino. Visti da Marias

Storie di fantasmi ha recuperato Einaudi nel nutrito corpus di inediti della produzione di Javier Marías (Cuando fui mortal, 1996, trad. it. di Glauco Felici, Quand'ero mortale, Einaudi, Torino 2001). Quegli stessi fantasmi evocati dal titolo del film in concorso al Torino film Festival diretto da Terry Zwigoff, Ghost world, un plot popolato di outsider, dove la vicenda si svolge in un tempo definito dallo spazio in cui trova rifugio Enid, una giovane neodiplomata – eccellente la cerimonia buonista e retorica che mette alla berlina l'ipocrisia della società occidentale (e americana in particolare), solo con poco minore accanimento iconoclasta di Solondz –: la stanza di Seymour (un nerd attempato con la faccia adatta di Steve Buscemi), dove si sedimentano stimoli grafici glamour, si accumulano design old fashioned e sonori fatti dell’impasto di struggenti blues che, provenendo da epoche passate, quando echeggiano, fanno vibrare l'atmosfera statica del presente con l'evocazione di quel vinile gracchiante…, ma quanto quel sound è più "spesso" di un’attualità insoddisfacente per assenza di connotati e prefabbricata, come quei cibi artificiali?!

Si tratta di una fuga? Forse, una delle tante tentate nei film selezionati da Giulia D'Agnolo Vallan nella rassegna "Americana": per Lynch è una fuga in avanti irrefrenabile che finisce per inanellare la stessa a ruoli scombinati; per Solondz la fuga è quella altrui nelle pieghe del metalinguaggio che continua a chiedersi se si tratti di realtà o fiction (quando non esiste la distinzione); per Toback è la paura e la speranza che dal ‘viaggio’ in realtà non si torni mai e allora ci offre la miglior rappresentazione lisergica di tutti i tempi, dopo The Trip di Corman.

Può apparire balzano l’uso di un romanzo spagnolo di un anglista per rintracciare il nodo attorno al quale si dipana la matassa di storie narrate da quattro registi americani, valutate però se la penetrazione della cultura americana non ha pervaso ormai il nostro mondo, intrecciando le percezioni globalizzate del passato, analizzate nei racconti iberici e messe in scena nelle pellicole statunitensi. E una volta tanto il dialogo a distanza tra le due coste atlantiche non ha partorito orrori bellici, sfruttamento coloniale, esportazione di modelli repressivi, ma la medesima tensione narrativa e le identiche percezioni strutturali del racconto.

Un altro addentellato tra Marías e Lynch/Solondz si ritrova nel costante richiamo a se stessi in quanto autori: il regista di documentari della componente Non Fiction è evidentemente un alter ego di Solondz, come il regista che subisce tutte le vicissitudini di Mullholland Drive denuncia tratti evidentemente autobiografici per Lynch (l’ambientazione della villa e l'acido jazz anni settanta che ne sottolineano il buffo scontro con l'amante della moglie sono tanto citazionisti quanto L’inglese di Soderbergh), che in quel modo trova nel noir ambientato in uffici da private eye il riferimento adatto per connotare il personaggio braccato e contattato da personaggi motivati da un misterioso provino incentrato su una donna, enigmatica come l'immagine di Laura Palmer. L’aria di Twin Peaks si respira anche in quelle inserzioni del nano nel grandangolo surreale, da cui si pensa vengano tirate le fila del racconto, l’entità che sta a monte di tutto e muove le fila, salvo poi scomparire per lasciare spazio alla meno deterministica scatola blu. Anche altri aspetti di Mullholland Drive sono accantonati o si perdono nelle pieghe del racconto, ma ciò fa parte della mole del materiale inserito, come l'episodio ridicolo del killer, esilarante nei suoi sforzi di trovare scappatoie alla sfiga, tutte scatenanti nuove difficoltà; si tratta di un inserto apparentemente autonomo, ma che – come avviene nei racconti di Marías – rappresenta una divagazione destinata a riannodare la narrazione, e alla fine esemplifica il criterio: in questo caso, la serie di eventi collegati che producono la storia (infatti alla fine della sequenza compare la chiave blu per la prima volta). Poi tutto torna in una sequenza finale dove sullo sfondo passa anche il cow boy e il killer viene assoldato al solito Winkie's: "This is the girl".

Dunque l'essenza rimane l'affabulazione. Ma in quali interstizi si nasconde se si finisce con il tendere all'appiattimento del tempo in un continuum? La risposta per Marías si trova in un breve racconto ("Nel tempo indeciso") dove assume rilievo quasi metafisico la sospensione che si crea in certe situazioni, dove è palpabile il limite – senza storia, perché l'inevitabile non può essere evitato, si può soltanto rimandare l'istante in cui si sancisce l'evento avvenuto – tra quel che è ormai passato e quello che è ancora futuro, e si protrae il tempo in cui diventa presente. Il muro invisibile che sancisce un passaggio epocale, che chiude una porta dietro la quale rimane fissato il passato. Lo scrittore lo esemplifica con il gesto di un calciatore (Szentkuthy): "Negò l'imminenza, e non tanto per aver fermato il tempo quanto per averlo marcato e reso indeciso", non sa se scorrere o no. Toback si affida all'acido per ottenere lo stesso effetto, Marías invece lo condensa in una pagina di Nera schiena del tempo ("A volte penso che per uno che ha cominciato scrivendo e leggendo in quel senso inverso – e questa tendenza me la corressero naturalmente –, il tempo dev’essere diverso rispetto a com’è per la maggioranza che non ha mai tentato di andare da dietro in avanti ma ha sempre camminato da avanti all’indietro, o non ha cercato di cominciare dalla fine ma di adeguarsi a essa, cioè alla sua attesa e alla sua paura e al suo arrivo; e a volte penso che forse per questo transito spesso attraverso ciò che in vari libri ho chiamato "il rovescio del tempo, la sua nera schiena", prendendo da Shakespeare la misteriosa espressione e per dare un qualche nome al tempo che non è esistito, a quello che ci attende e anche a quello che non ci aspetta e quindi non avviene, o soltanto in una sfera che on è propriamente temporale e in cui chissà che non si trovi la scrittura, o forse soltanto la finzione. Può darsi che per questo percepisca spesso il passato come futuro – e il futuro come passato: ciò che deve venire come se fosse già avvenuto e arrivato, e addirittura come se ormai non avesse troppa importanza che sia iniziato addirittura il suo oblio o il suo sfumare, così passato o perduto finisce per farsi tutto il tempo. Forse lo è soltanto quello che è trascorso e può essere raccontato o così sembra, e che perciò è l’unico ambiguo o l’unico che consente l’ambiguità, come scrisse ormai trent’anni fa don Juan Benet. E fece anche allora un’altra affermazione enigmatica che non ho letto fino a circa trenta mesi or sono nel vecchio articolo che la contiene e rispetto alla quale non posso più domandargli niente: "... a me sembra che sia il tempo l’unica dimensione in cui possano parlarsi e comunicare i vivi e i morti, l’unica che abbiamo in comune...", questo disse. Non lo capisco, non lo capisco del tutto ma so che lui non scriveva in modo gratuito, anche se a volte in modo arbitrario come tutti i buoni scrittori. Non lo capisco a meno che non pensi piuttosto a quel rovescio o a quella nera schiena attraverso la quale scorre la voce capricciosa e imprevedibile che tuttavia conosciamo tutti, la voce del tempo quando ancora no è passato né si è perduto e forse per questo non è neppure tempo, quella voce che sentiamo in modo permanente e che è sempre fittizia, credo, come forse lo è e lo fu e lo sarà fino alla sua fine quella che qui sta parlando", pagg.268-269)

 

_ L’insoddisfazione del presente e l’insofferenza per il proprio epigonismo.

Nel caso di Zwigoff il rifugio dove si cerca riparo dal vuoto del presente è il mondo parallelo del collezionismo. In questo trovano spazio alla rinfusa: il sano e vecchio blues, Duchamp, il femminismo dell'insegnante radical di arte, Grosz – vero riferimento seminascosto per dare un giudizio su quel mondo borghese, a cui la ragazza cerca alternative, trovandole nei suoi schizzi improvvisati di avventori – e il trovarobato dello styling di "Wowsville", locale in cui tutto è fifties, come Pleasantville, ma scremato delle speranze; rimane solo la disillusione di chi nella ripetizione del rito del riascolto dello struggente blues perpetua il gesto di rivivere in eterno quella originaria sensazione di benessere provata la prima volta che si è ascoltato quel caldo suono che ti scende nelle vene direttamente dall’Africa (quella stessa che nella protagonista della componente Fiction di Solondz incute sensi di colpa e atteggiamenti altrettanto prevenuti di un’orda di affiliati del KKK, ... solo al contrario), avendo la percezione della condanna incombente, quella di continuare a rivivere quel momento ma senza la magia, anzi avendo chiaro ogni minimo dettaglio in cui finisce con il perdersi l’incanto soffocato da tutti i diversi punti di vista che sviscerano ciascun singolo momento, anche il più insignificante, lo stesso dramma illustrato da Javier Marías, quello di essere tesi nello sforzo di recuperare lo stesso benessere della "prima volta" e la sicurezza che per quanti dispositivi narrativi si congegnino non si riuscirà a rivivere, però si prova, finendo sempre con il costruire canovacci simili, ma con elementi di diversificazione. Proprio lo stesso risultato che viene moltiplicato all'infinito nelle trame scombinate di Lynch.

I film americani recenti di quest’anno selezionati dal festival hanno spesso in comune questo aspetto: la creazione di un mondo parallelo in cui rifugiarsi e in comune con i racconti della scrittore shakespeariano di Spagna hanno quel punto di vista esterno che talvolta emerge. In questo caso si tratta degli oggetti ("[...] durassero, durassero, quando qualcuno viene a mancare ci rendiamo conto della trasmissione perpetua e silenziosa tra le persone e le cose, e così queste assumono vita vicaria e diventano testimonianze e metafore ed emblemi e si ergono nel filo della continuità spesso; e sembra allora che racchiudano le vite immaginarie e quelle no concluse e quelle finite male, o forse il fatto è che sono gli oggetti la sola cosa che concilia e livella presente e passato, e perfino il futuro se durano e non vengono distrutte. Proprio perché continuano a vivere senza rimpiangerci non cambiano, e in questo no sono leali", pag. 198 Negra espalda del tiempo, trad it. di Galuco Felici, Nera schiena del tempo, Einaudi, 2000 Torino), in fondo sono i tesori delle collezioni che creano le situazioni: appare razzista agli incolori compagni di corso – il gruppo opaco di aspiranti artisti è un altro elemento comune al film di Solondz, che fonda il primo episodio di Storytelling sulla messa alla berlina di un malinteso senso di tolleranza ‘razzista’ – il manifesto che Enid recupera come ready made e dunque non è un caso che si parli di collezione, ma nemmeno è incidentale che si adotti il duchampismo per lanciare segnali che dovrebbero mettere sull'avviso lo spettatore. Enid infatti non avrà la borsa di studio perché si è spinta troppo in là nel recupero dell’oggetto: lo ha sì museificato, ma poi ha vissuto realmente quell’epoca e questo è intollerabile, perché si è condannati a rivisitare con consapevolezza, ma senza trasporto (come capita anche al giovane Holden di Salinger, quando ritorna al Museo di Scienze Naturali, visitato più volte da scolaro), come nella sofferente routine degli angeli di Der Himmel über Berlin, che tutto ascoltano e presso ciascuno sono solleciti raccoglitori di pensieri ("Tutto è concreto ed è eccessivo, ed è un tormento soffrire la lama tagliente delle ripetizioni, perché la maledizione consiste nel ricordare tutto [...] Ma ho già detto che questo è soltanto la seconda delle cose peggiori, c’è qualcosa di più lacerante, ed è che adesso non soltanto ricordo quello che ho visto e sentito e saputo quand'ero mortale, ma che lo ricordo per intero, cioè anche con quello che allora non vedevo né sapevo né sentivo né era alla mia portata, ma riguardava me o coloro che mi stavano a cuore e forse mi formavano", Quand'ero mortale, pag. 58). È proprio la creazione di mondi paralleli-covo che puntella ogni aspetto in Ghost World, e tutti sono proiettati indietro nel tempo, legittimando l’attrazione del museo, e quindi questa spinta trova la sua nobilitazione nel collezionismo, che funge da contraltare al presente, proposto fin dall’inizio con i buoni sentimenti falsi della ragazzina in carrozzina, e proseguito con le operazioni di nostalgia consentite (e anzi artatamente imposte all’immaginario collettivo, disinnescate), oltrepassa gli anni cinquanta, proponendo una nuova rivisitazione di fantasmi (l’insegnante che fornisce parametri di riferimento congelati nel movimento artistico e di liberazione degli anni sessanta), non dimentica nemmeno di incarnare in una figura quasi ectoplasmatica, il riassunto di quella sensazione di permanenza del passato che Marías sembra riassumere a pag. 69 di Quand'ero mortale, nella chiosa del racconto che dà titolo alla raccolta dei racconti brevi: "Ognuno di loro, immagino, tornerà senza essere percepito a quello spazio in cui si accumulano dimenticati i tempi e non vedrà lì altro che estranei, uomini e donne nuovi che credono, come i bambini, che il mondo è cominciato con la loro nascita e per i quali non ha alcun senso interrogarsi sulla nostra esistenza passata e spazzata via". Il vecchio collocato sulla panchina da Zwigoff è espressione di questo sentimento, usando una delle immagini ricorrenti del cinema americano: il bus greyhound che si porta finalmente via il fantasma che testimonia il passato con la sua assente presenza immobile nell’osservazione dei tempi andati, di tutta la realtà transitata – passata appunto – da quel punto nel mondo. Il cliché è particolarmente evocativo e anche questo fa parte di quella componente autoreferenziale caratterizzante il corpus di Marías, che in Negra espalda del tiempo riprende un’esperienza autobiografica narrata in Todas las almas, trattandola come autentica ma insinuando il dubbio sulla quantità di fiction che infarcisce l’intreccio oxfordiano, creando un cortocircuito con Lynch e Solondz ma soprattutto con se stesso, giocando con le proprie creazioni quanto Paul Auster nei suoi plot limita ai rimandi che i suoi personaggi fanno a se stessi. E allora un uomo con un binocolo in mano è pretesto voyeuristico per lo scrittore iberico, che si diverte ad aggiungere un ulteriore filtro, avvicinando così i suoi testi – sempre labirinti di rimandi – alle molte scatole cinesi che racchiudono questi racconti filmici: "Sto cercando di vedere che cos’è che guarda un uomo che sta qui accanto, su un altro balcone" (Quand'ero mortale, pag. 53). Lo sguardo per riflesso, fisso su un interesse non ancora del tutto chiaro, che siamo sicuri ci venga svelato dal procedere del racconto fa il paio con i "Fantasmi" della Trilogia di New York di Auster.

E poi, su tutto quello, si impone la ricostruzione precisa nel dettaglio, maniacale, del collezionista che vive letteralmente avvolto da Memphis Minnie, perché il suo lavoro di ritessitura di un mondo si appunta sui minimi dettagli, ma anche in quel caso l’ordito si fa artificioso, ed è questo il motivo di quella tristezza che ammanta i gesti dei collezionisti: per quanto si sforzino – e in effetti la ricostruiscano attraverso il possesso dei pezzi di passato – sfuggirà sempre l’effimericità che conferisce realtà alla partecipazione ‘dal vivo’ ad un’epoca più accogliente, di cui rimangono le vestigia sotto forma di oggetti: "Quando non leghi con nessuno ti riempi di roba. Io odio i miei interessi" (Seymour, su se stesso), finché in un buco della storia c’è un passaggio per tornare indietro e intervenire eroicamente, cambiando il corso degli eventi: la disputa nel negozio di Josh si compone in modo diverso, … ma forse è anche in questo caso una rivisitazione immaginaria del passato.

Ma l’immateriale in cui ci muoviamo nell’ambito della produzione dello scrittore, come nei quattro testi filmici messi in relazione tra loro e con lui, è composto per lo più da assenza di steccati precisi sull’asse temporale; l’ultimo racconto della raccolta si chiude proprio accennando a quella commistione di passato, presente e futuro (preconizzato molto più cripticamente, ma altrettanto lucidamente, in un vecchio film di Alexander Kluge: La lotta del presente contro il resto del tempo), un tempo unico che soprattutto per Mullholland Drive e Ghost World vale, ma che trova un senso anche per la speranza di Toback che davvero si finisca relegati nel mondo parallelo dell’autoracconto indotto dall’acido: "[…] a partire da allora, e fino alla morte, Molly Morgan Muir attese con illusione e impazienza l’arrivo del giorno prescelto in cui il suo impalpabile amore silenzioso accettava di tornare al passato dal suo tempo in cui in realtà non c’era più nessun passato né nessun tempo, l’arrivo di ogni mercoledì. E si pensa che sia stato quello a conservarla ancora viva per parecchi anni, vale a dire, con passato e presente anche futuro, o forse sono nostalgie" (Quand'ero mortale, pag. 184). Come quelle collezionate in Ghost World.

 

_ Convergenza di duplici sguardi, forse un po’ strabici allo scopo di separare marginalmente i mondi.

Gli sguardi che Marías getta sul mondo sono spesso duplici, nel senso che propone una lettura degli avvenimenti, che poi viene modificata a una seconda lettura (come avviene per il copione recitato in cucina in Mullholland Drive e poi replicato). Spesso il piano della finzione e quella dell’autobiografia si scambiano – non si limita a confonderli, li inverte – producendo lo stesso spaesamento su cui Solondz fonda il continuo passaggio del confine, ormai del tutto virtuale, tra finzione e documentario. La sua disposizione poi è arricchita da una dose di sarcasmo al vetriolo che colpisce ciascuno di noi, che non può non ritrovare qualcosa di sé in quei personaggi, relegati però nel mondo immanente della letteratura. Infatti in una delle prime sequenze riprende il tentativo di comparare il menomato aspirante scrittore presente nell’aula con qualche famoso romanziere (Updike con psoriasi e Borges cieco, compresi, fino agli spropositi blasfemi che denunciano il gioco perverso del regista, come la definizione di ‘Faulkner disabile e dell’East coast’, evidentemente agli antipodi del premio nobel "confederato", un paragone impossibile e fuori luogo), un universo che viene sistematicamente evocato dalla prosa di Marías, che nel brevissimo "Non più amori" intreccia così strettamente realtà diegetica e mondo letterario che il luogo del racconto è una casa infestata di fantasmi abitata anche, pare – secondo una leggenda metropolitana – da Henry James, per rendere esponenziale il cortocircuito. Addirittura il fantasma appare alla lettrice (assoldata da una donna il cui nome, Cromer-Blake, è presente anche in Todas las almas, giusto per intersecare realtà diverse avvolgendole in un unicum letterario) evocato dai lemmi ‘Stevenson’, ‘Austen’, ‘Dumas’, ‘Conan Doyle’: "Il suo viso era inoffensivo, con un timido sorriso perpetuo negli occhi scherzosi, alternato soltanto, in alcuni momenti gravi della lettura, a una serietà allarmata e ingenua tipica di chi non distingue del tutto tra accaduto e immaginato" (Quand'ero mortale, p. 180). Proprio quello è il messaggio di entrambi i due speculari episodi "Fiction/Non fiction" di Solondz: infatti sia il ragazzino Toby, che ancora non si è reso conto di quale sia il piano di realtà a cui fa riferimento il documentarista per dirgli che gli dispiace, sia Vi, che non ha prove di cosa sia accaduto (ha scritto una volgare novella "ugly and perverted", oppure ha messo in scena un suo sogno? Sicuramente ciò che è escluso a priori è che abbia raccontato un'esperienza traumatica autentica).

Programmatiche le T-shirt: l’ultima indossata dalla aspirante scrittrice senza talento riporta la locandina di The Otels, allusione shakespeariana che riconduce lo stupro subito da parte del professore, moro come Otello, alla narrazione già presente "sulla" sua pelle, bianca e sostituita da quella seconda epidermide che sono le magliette esibite come ‘falsa’ identità, dietro a cui nascondere la propria reale natura. In precedenza la sua mise aveva richiamato esempi sommi di poesia africana ("Biko lives" è la prima), che rimangono seconda pelle giustapposta con uno sforzo di coscienza che non corrisponde al reale sentimento, perché quello che accade è uno stereotipo sotterrato nel più intimo e profondo immaginario: il nero è innanzitutto il mandingo che la fotte da tergo contro un muro, costringendola a nominare quella sua fantasia letteraria, reale nel suo safari inconscio alla ricerca di esotici trofei: "Nigger, fuck me hard", non senza aver fatto pronunziare anche a lui nella finzione recitativa del suo ruolo un classico della convenzionalità dei rapporti interrazzisti: "Hai una pelle stupenda", a sottolineare una improbabile invidia della pelle bianca da stuprare; salvo poi riprendere a utilizzare il forbito linguaggio del docente-pullitzer il mattino in classe, ma lo scherno dell'autore va oltre, dileggiando il suo personaggio (e in fondo quella parte di lettore che trova similitudini e velleità comuni alla pochezza della giovane che si prefigge: "Don't be racist" e se lo deve recitare allo specchio per convincersene); Toby a sua volta ha una serie di magliette altrettanto contraddittorie con il suo reale comportamento (culminando addirittura in una rossa stella su campo nero facendo seguito a una esplicita scritta ‘cccp’, che per la società americana deve avere un effetto rivoluzionario, identificando un ribelle irrecuperabile – come d'altronde viene trattato in famiglia, ma che non viene fuori dal documentario, incapace di fotografare davvero la realtà – che in tempo di guerra va ostracizzato e messo al bando), suggerendo che la peculiarità dei due sia animata da velleità che si risolvono poi soltanto in esteriore ubbia. In realtà il regista di Happiness divide il suo film in due parti non solo dal punto di vista degli indumenti (dichiarata attenzione in una splendida battuta volta a stigmatizzare l'ossessione di Vi, definita come affetta da "Benetton rainbow complex"), ma il criterio è quello degli obiettivi del suo smontaggio, diversi: dapprima si accanisce su personaggio e testo, che viene scomposto per essere sviscerato, fatto a brani e lasciato nudo dall'interno del testo stesso (e trova nella splendida prima della classe la perfetta incarnazione di questa furia iconoclasta, una personificazione molto letteraria, che non perdona nulla al testo e lo distrugge sistematicamente, producendo decostruzionisticamente la propria analisi critica senza appello dall'interno del testo stesso); poi infierisce sull'autore – "Ti senti superiore ai tuoi personaggi", dice la collaboratrice-critica in sala di montaggio, dando forma ai suoi dubbi: "Approfitti di loro" – e i suoi dubbi di realismo e adesione alla realtà, che vengono a loro volta annullati dal ridicolo risultato del montaggio finale che manipola i suoi protagonisti. In questa seconda parte, relativa al regista e dunque a se stesso, vengono relegati i tropi classici della maniera di Solondz, in primis quella famigliola crogiolo di ogni perfidia – autoritarismi e ricatti, meccanismi di potere e crudeli duplicazioni del sistema (il ragazzino che fa licenziare la chicana, che peraltro definisce ‘stupro’ come: "Quando ami una persona che non ti ama e risolvi il problema"), strisciante fascismo nelle convinzioni omofobe e grettezze moralistiche – ma non manca la struttura scolastica e la sua insipienza, che crea mostri di vuotezza cosmica, animati soltanto dai modelli televisivi vincenti ("Just famous" è l'unico ideale: il nuovo nulla sotto la maglietta). In questo coacervo di significati sviscerati per realizzare uno spaccato della realtà americana spicca la critica alla narrazione che adotta gli stessi stilemi di Marías nella decostruzione del testo attraverso rimandi che si dipartono da dentro il testo per raggiungere altre narrazioni in grado di scardinare dall'interno il racconto che si va dipanando.

 

 

Quand'ero mortale. In questa raccolta di brevi e brevissimi racconti la duplicazione di messe a fuoco successive si indovina anche da un titolo "Binocolo rotto", dove si svela il meccanismo aggiungendo che il personaggio osservato dal protagonista (un’altra ricorrente maniera dello scrittore è quella di proporre un io narrante che è semplice osservatore di un altro, frapponendosi al lettore, duplicando la sua funzione per antonomasia e spostando la narrazione un po’ più lontano) portava i gemelos, quelli sui polsini, che sono sinonimi in spagnolo del binocolo, di per sé oggetto ambiguo. Alla fine si rivela un personaggio sorprendente che si trova di fronte a un bivio: la sua storia potrebbe concludersi in due modi diversi, che non cambiano di molto la conseguenza, ma il ruolo. I finali ambigui infatti si ritrovano nello Storytelling solondziano, dove la battuta finale può alludere sia al film che alla strage. E che tutto si giochi sui ruoli è il fulcro che legittima per Marías una pura narrazione come "Meno scrupoli", dove non capita nulla, se non il racconto fatto da un attore in una situazione in cui c’è davvero la soglia che divide la realtà dalla finzione: un uscio su uno studio di registrazione di film porno e i due destinati a scoparsi per finta, ma fottendosi realmente, che parlano amenamente. "Per un attimo fui presa dal dubbio che l’attore Lorenzo stesse recitando, per distrarmi e farmi calare il nervosismo" (Quand'ero mortale, pag.108). E il film di Solondz s’inizia subito con due corpi che stanno scopando, ma mentre parlano di racconti.

 

 

_ Persistenza del tempo sullo spazio.

"Uno non deve dimenticare che se fugge no può mai essere scalzo, né guardare la televisione, né gli occhi di chi appare di fronte e potrebbe forse immobilizzarlo, i miei occhi guardano solo indietro e quelli dei miei persecutori avanti, verso la mia nera schiena, e per questo sono sempre certi di raggiungermi" (Mala indole, 1996, trad it. di Paola Tomasinelli, Malanimo, Einaudi, 2001 Torino, pag. 8)

L'inanellamento dei racconti tra loro in Marías è impostato su una struttura che appiattisce il tempo, rendendo lo spazio un universo pieno, stracolmo, perché convivono tanti tempi, o meglio: il presente è un'unica infinita dimensione temporale, in cui avviene tutto ciò che è occorso in quello spazio nella memoria dei testimoni "contemporaneamente". È proprio la memoria il problema di Rita, uno struggimento che richiama "alla memoria" un’opera dell’anno scorso, intrigante per il continuo riagganciarsi della situazione che si ripete sempre un po’ diversa, ma uguale, avvicinandosi a una composizione, negata dal ricordo labile e pronto a svanire per lasciare spazio a nuove ricostruzioni: Memento. Qui l’unico riaggancio utile è il cartello che dà titolo al film di Lynch, l’immagine di partenza.

In comune tra i tre autori (Lynch, Auster, Marías) c'è, negli interstizi di ogni superficie testuale – apparentemente piatta e percorsa da avvallamenti fatti di retorici stereotipi –, la ricerca di quelle smagliature, le crepe, le abrasioni, le lacune, i vuoti, che formano un nuovo senso poiché rimandano sempre a un altrove non detto, non completamente esplicitato; e la parte di non detto è proprio quella perturbante e che spesso la mente non riesce a recuperare per ricostruirla coerentemente..

Tra i racconti brevi dello scrittore spagnolo si rimarcano "Il medico di notte" e "Eredità italiana", per la sorprendente identità della trama con Mullholland Drive: anche qui due donne si sovrappongono fino a far dubitare della loro distinzione e rilanciano la continua confusione dei ruoli, che si dipana ‘consequenzialmente’. Marías procede per successivi inserti che creano molti racconti ad anello che, concludendosi, fanno avanzare un po' il racconto principale, destinato ad avvicinarsi a una composizione dell'innesco, che viene sempre spostata in virtù del fatto che nel momento della soluzione, questa è insufflata, ma solo perché può aprire una nuova soglia, cioè viene portata a compimento solo perché in nuce prepara l'universo parallelo in cui si svilupperà il nuovo racconto che ripropone situazioni simili. In Lynch gli intrecci si ripetono aggiungendo elementi già introdotti, ma completamente rivisitati, resi più inquietanti (i due anziani turisti con il sorriso stampato in volto come da depliant) e spaesanti (scambi di ruoli), proprio perché riconoscibili, ma parzialmente delocalizzati: la destrutturazione si accentua poi attraverso l'accumulo di riferimenti extratestuali a opere di Lynch stesso (che si mette in scena, come Marías attiva connessioni alla sua biografia) o a film amati (Sunset Boulevard compare non solo come cartello stradale, ma anche come icona nell'auto e nell'ingresso esterno degli studios). L'effetto è uno stordimento che proviene dal costante esercizio che costringe lo spettatore a essere presente alla situazione, cogliere lo sfasamento intertestuale, collegando la sequenza a cui assiste ad un'altra evidentemente allusa, ma avendo presente l'intero canovaccio, cogliendo pure i rimandi extratestuali. La novità è che Lynch non si limita a rimandare a un successivo (non futuro) racconto, ma si prende la briga di inscenare quella stessa "crudeltà" teatrale verso la predisposizione dello spettatore a farsi coinvolgere (Artaud?) e il finale diventa così un sabba spaesante, ma per la prima volta (anche troppo?) ‘razionalmente’ compatibile con la percepibilità dello spettatore che se non può ricostruire i tasselli, indovina quale criterio potrebbe esserci dietro. Non è più inspiegabilmente stridente con la possibile ricostruzione a posteriori che qualsiasi lettore fa di un racconto, come era il personaggio che alla fine di Lost Highway parla con se stesso al citofono, benché proprio quel film sia un evidente riferimento fin dalla strada inquadrata all'inizio nella notte dai fari di un'auto sulla celeberrima collina prospiciente Los Angeles, aggiungendo l'informazione relativa al genere che maggiormente verrà saccheggiato: il noir popolato dalla dark lady bruna (su tutti il prototipo dell'autostoppista di Detour di Ulmer, 1945). Però ci lascia in mano una chiave blu per una scatola, blu come le pietre della Lulù on the Bridge di Paul Auster, rivoltabile per ribaltare le parti e rimescolare gli eventi. Il noir come madre di tutti i generi: e allora i due in auto come Bogey e Gloria Graham di In a Lonely Place di Ray, gli innumerevoli specchi che rimandano il volto e le spalle eburnee di Rita, che osserva non il suo volto, ma un poster di Gilda, paradigma di donna selvaggia, tanto che – "Rita", appunto – dopo l'incidente iniziale diventa una donna pantera che si nasconde nei giardini. E dalla tradizione noir escono anche i due bozzetti di investigatori in trench d'ordinanza che avanzano dubbi, facendo i rilievi sul luogo dell'incidente: quelli sono deputati ad attivare la ricerca, "l’inchiesta come in un film". Quella che deve mostrare l’altra metà della vita, nascosta e dissimulata fino a che l’ingresso del labirinto è indicato dalla conseguenza dell'incidente causato da un’eventualità inattesa ("Nulla potrebbe essere più paurosamente casuale di quell’evento", si legge nella quarta di copertina di Mañana en la batalla pensa en mí, trad.it di Glauco Felici, Domani nella battaglia pensa a me, Einaudi, 1998 Torino, che prosegue recitando frasi che si attagliano perfettamente al lavoro di Lynch: "Nessuno è quello che sembra, fantasmi e chimere hanno più consistenza delle persone in carne e ossa", infatti nella descrizione di Celia sembra di vedere in tralice l’incertezza sull’identità delle donne di Lynch: "Mi ha guardato e non ha battuto ciglio, come se non mi avesse mai visto, mi è sembrato soltanto che trattenesse il respiro: se era Celia stava forse preparando la prima frase o risposta e anche il tono di voce deformato, o la pronuncia diversa da quella abituale, stava prendendo tempo. Il viso era il viso di Celia che conosco così bene e allo stesso tempo non lo era, voglio dire che aveva una pettinatura artificialmente arruffata impensabile in lei, con ricci fasulli e mèche biondastre, e quel trucco non glielo avevo mai visto, le labbra dipinte di color sangue, si definivano più del normale, gli occhi dalle ciglia innegabilmente finte e dipinta e allungata la coda, e quei tratti li rendevano più a mandorla e più incalzanti. Neanche i suoi vestiti erano vestiti da Celia, la gonna troppo corta, il body troppo aderente, soltanto il soprabito poteva essere suo perché vedendolo più alla luce e da vicino ho visto che non era un soprabito ma un impermeabile come quelli che lei portava qualche volta, anche le scarpe con i tacchi molto alti avrebbero potuto essere quelle di Celia nelle sere in cui andavamo a qualche festa", p,159): davvero quei giovani che si schiantano contro la Cadillac non fanno parte del destino e sono la variabile impazzita che dischiude le porte sull’universo parallelo di differenti istanti di morte ricostruiti? (""Non soltanto scompare chi sono ma anche chi sono stata, non soltanto io ma la mia memoria tutta intera, quanto io conosco e ho imparato e anche i miei ricordi e quel che ho visto, le mille e una cosa che sono passate davanti ai miei occhi e non importano a nessuno e a nessuno servono e diventano inutili se io muoio"". Mañana en la batalla pensa en mí, p. 272, il passo del romanzo in cui più evidente è il gioco lynchiano della sovrapposizione di personaggi, che confondono i loro destini e per i quali sono in agguato futuri diversi, "Le azioni non sono le stesse se non durano abbastanza nel tempo, dipendono dai loro effetti", perché possono bloccarsi o rimanere sospesi come il calciatore: "Ma è ancora no, ancora no, e finché è ancora no posso continuare a pensare alla battaglia quotidiana e a guardare questo paesaggio straniero, e a fare progetti per il futuro, e si può continuare ad accomiatarsi", cioè "Eva era ancora viva anziché essere morta", p.272).

Come sempre in questa forma narrativa tutto sembra incastonarsi casualmente, anzi destinalmente, ma quando i tasselli vengono manipolati si vede come in realtà anche se si fosse svolta la trama negli altri modi possibili sarebbe altrettanto casuale e fatale, come le rivelazioni di Marías, che offrono una spiegazione diversa, plausibile, da quella che ci si attendeva ("In viaggio di nozze" termina lasciando la spiegazione sospesa, ma il plot di Mañana en la batalla pensa en mí lo svela e ne dà una spiegazione sconcertante), enunciata in Mulloholland Drive fin dal boogie sui titoli che scompone le coppie di ballerini, moltiplicati all'infinito e ulteriormente sdoppiati nell'alone prodotto intorno a loro. I personaggi introdotti nel film sembrano chiamati da una forza interna al racconto stesso che li fa esistere e poi gli trova anche la plausibilità: l'avventore del Winkie’s, chiamato a rivivere il proprio incubo legittima l'episodio, il sogno e l'inquietudine che deve trasmettere in virtù del luogo in cui si anima la sua fine: quell'angolo in soggettiva ci fa entrare nel sogno che fino ad allora ci è stato accennato (l’invito a raccontare – Tell me – non raggiunge il suo scopo, perché il linguaggio non è sufficiente) e si unisce al luogo pauroso, che ricorre e da cui spuntano i peggiori incubi che legano i racconti è un luogo emblematico che consente ai soggetti di divenire ("Ma in quel caso, se mi avesse portato, – ho pensato, – in quel caso avrei dovuto anche smettere di essere nessuno", il personaggio di p.78 della battaglia di Marías è costretto a divenire dai luoghi che frequenta: "Il suo aspetto è indecoroso in alcuni ambienti, non in tutti", p. 80).

Tuttavia il luogo, che sembra in questo modo apparire fulcro del racconto, viene negato subito, denunciando l'intento di cancellare ogni unità di luogo e tempo: le quattro telefonate di seguito lo annullano, facendoci rimbalzare da un ambiente all'altro fino a disorientarci; un processo che deve agevolarci a "open mind", l'invito rivolto nel film.

"This is the girl": come dimenticare la frase più recitata dal film. La scelta della protagonista, che si moltiplica, come infiniti sono i suoi sponsor, fino alla macchietta del cowboy quasi circondato da un alone che lo colloca in qualche fotogramma estraneo alla pellicola di questo film, dove viene catapultato da strani fenomeni fisici, che riescono a rendere possibile anche un corral, un altro sogno materializzato solo attraverso una battuta divertente, come deve essere il cinema: "E dove lo incontro, al ranch con i miei stivali?". Infatti... e quel sogno fatto di battute degne di Randolph Scott, inventate da Boetticher e che il cow boy ordina di rammemorare ("La condotta di un uomo traccia una linea che lo conduce tutta la vita. Quindi da’ poco rilievo alla tua vita. Pensaci sopra"), si somma a quelle da gangster-film con l’incontro con i mafiosi italiani, produttori in Limousine, che mettono in scena la gag del caffè e ribadiscono: "This is the girl". Tormentone che diventa la summa di tutto il cinema di Lynch e anche di buona parte di quello americano. Difatti non può mancare la scena del bacio appassionato, una sorta di Gone with the wind inscenato due volte, facendo rilevare la enorme differenza tra la partecipazione erotica data nella prova autentica, rispetto alla recita familiare da cui non si coglieva il contesto, né l’intento (anche in questo caso Adam, il regista, viene mostrato come un trombone distratto, sollecitato a pronunciare frasi retoriche, inadeguato come quello di Solondz); la doppia recita è l’ennesima dimostrazione che tutto è doppio e apparente, i simulacri si sprecano e continuano a duplicarsi in infinite simulazioni, come nella Cadillac si trova all’inizio Rita e alla fine Diane nella stessa situazione e con le medesime battute; e da ultimo (last but not least) il musical, motore primo del film, dato che il casting è destinato a un musical, di cui però viene messo in scena un anomalo e mefistofelico spettacolo, che introduce l'ennesima figura femminile, che potrebbe convergere sulla stessa e unica donna del film, perché tutte le figure femminili risultano rispecchiare parametri unici che concorrono a formare l'unica donna del cinema americano, tanto che Rebecca canta Llorando e Betty si mette a piangere. Le donne sono le sole figure che popolano il film e anche le scene di sesso sono lesbiche, perché le figure a tutto tondo sono solo quelle femminili. Anche se intercambiabili.

L'operazione poi suggerita dallo scrittore nel suo capolavoro del 1994 è quella di ricordare quella notte, e l’amnesia che colpisce Rita fa procedere il film di Lynch attraverso atmosfere noir, le stesse che Marías evoca nelle sue citazioni cinefile (in Mañana en la batalla pensa en mí è esplicito il richiamo a Falstaff di Welles, ma soprattutto a un film con Barbra Stanwich e Fred Mac Murray che ha fatto pensare a Double Indemnity, classico noir di Wilder, e poi individuato in Remember the night di Mitchell Leisen).

[seguiranno credits e immagini in un apposito ipertesto]