NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Solstizio d'estate
Anno: 2000
Regista: Tran Anh Hung;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Vietnam; Francia;
Data inserimento nel database: 24-10-2000


À la vertical de l'étè

 

regia sceneggiatura e dialoghi tran anh hung
musica originale ton that tiet
fotografia mark lee
décor benoît barouh
suono francois waledisch
costumi susan lu
montaggio mario battistel
montaggio suono gérard hardy
mixage dominique dalmasso
trucco évelyne byot
soggetto patricia petit
regia generale marc bouschet
effetti speciali olivier zenenski

lien tran nu yen khe
suong nguyen nhu quynh
khanh le khanh
hai ngo quang hai
quoc chu hung
kien tran manh cuong
tuan le tuan anh
huong le ngoc dung
ngan doan viet ha
hoa le vu long
mui do hai yen
toan hoang lam tung
il pescatore nguyen huy cong
piccolo sorriso tran nu lang khe
la figlia di quoc be hung

 

 

À la vertical de l'etè, ovvero una condizione di sospensione momentanea e limitata nel tempo, dove si raggiunge la "Armonia come giusta consolazione". L'intreccio che sta tra la condizione di pace e la rappacificazione finale è un percorso catartico per liberarsi dalla cattiva coscienza, che "con il passare del tempo diventa tristezza": ciascuno infatti si purifica di qualche colpa che lo pone oltre i limiti del proprio equilibrio precedente (Suong chiede al marito semplicemente di porre le condizioni di tornare a essere quello che era prima, senza imporgli di rinunciare all’altra famiglia lontana: "Non riesci più ad amarmi per via dello sbaglio che hai commesso").


La macchina da presa fin da subito si bea di seguire la languida positura della giovane corvina lungicrinita come da iconografia vietnamita, la macchina fa l'amore con le "dilette" forme della sinuosa ragazza: i movimenti del risveglio si esaltano nella ginnastica danzata del tai chi. E di nuovo, come avviene in forme diverse in O Fantasma e in Hollow Man, è il corpo a imporre la sua presenza. E i risvegli danzati in coppia con Hai, il fratello amato, diventano ripetizione sempre diversa di un canone, che attraversa la turbolenza che scompiglia con grazia l'armonia languida iniziale per condurre a una nuova pace, magari un po' triste, tesa a ricomporre lo stato iniziale con una catarsi finale ben diversa da quelle della tradizione occidentale derivante dal teatro greco: qui non avviene nulla però trascorrono tutti i possibili intrecci. Fino a ottenere un nuovo stato di grazia, annunciato dal tintinnio celestiale delle gocce lasciate cantare nella bacinella, dove anche la trasparenza della cascata aggiunge note argentine al sonoro. Eppure l'intero film si dipana attorno ad un anniversario di morte, quasi che l'armonia ricercata e persino esplicitamente aggettivata come "triste" sulla giunca nel paradisiaco golfo sia quella che deriva dall'elaborazione di un lutto, nominato solo all'inizio e nella battuta finale, come se l'aleggiante presenza del defunto nel rito non possa che produrre un rilassamento soave. Per il resto ci sono corpi di cui l'inquadratura si innamora: sia nel dettaglio della pelle, che trae risalto e luce, sia nei tratti, che sono esaltati, ma soprattutto nell’attenzione per i cromatismi e nelle collocazioni dei corpi. Da questo insieme di ricerca del dettaglio più vicino alla perfezione l’autore fa trasparire i singoli elementi del racconto come colmati da una naturalezza, risultato invece di uno studio maniacale e una cultura attenta alla disposizione delle figure in una rappresentazione.


E dunque troviamo una omogenea coloritura dei tessuti indossati dalle tre sorelle all'inizio a sottolineare il momento di particolare armonia da loro vissuto, ammantate da indumenti dai toni blu, ma ciascuna con una particolare sfumatura personale, che gradualmente si distacca nei gialli fragili e spontanei di Lien verso i forti rossi (il muro inquadrato a tutto schermo durante la crisi di Quoc e Suong, ma anche durante gli incontri clandestini degli amanti muti) dei momenti più turbati dagli eventi quotidiani e descritti con grazia fino all'identità del bianco sfoggiato durante l'ultimo risveglio dai due fratelli, subito ribaltato nel nero delle gramaglie di entrambi nella sequenza di risveglio finale un mese dopo l'inizio. Ma a dominare la tavolozza del fotografo è il verde (che per il regista rappresenta "la perennità della tradizione e dell'universo famigliare", ma senza nulla del controllo cattolico di stampo istituzionale, piuttosto espressione di un sistema di riferimento consolatorio radicato in ciascuno, indispensabile per risolvere momenti critici e formulare scelte), quello della natura, chiamata a rappresentare il paradigma di pace e tranquillità a cui tendere, magari inventandosi un plot per un film o un racconto in cui si ricompone l'armonia della coppia di genitori, ricercando l'amante della madre, anche rischiando di scoperchiare e mettere in crisi i propri rapporti di coppia. Il mondo vegetale è sempre presente sullo schermo e disputa lo schermo agli umani, evitando tutti i conflitti: nella cornice dei picchi di sogno; ma anche nel parco che accoglie i due ragazzi intimoriti dal loro amore, lei, e dal carattere dominante di Lien, lui; nel caffè immerso nel verde di Hanoi o nell’hotel avvolto da piante enormi di Saigon. In nessuno di questi ambienti arboricoli è possibile alcun conflitto. Tanto che la rivelazione non ci viene presentata, l’ellisse nasconde la reazione per ridiscendere al piano inferiore, in modo da mostrare una situazione statica che dall'immobilità prepara la riconciliazione.


Le figure del film si dispongono di fronte all'obbiettivo in base al sesso: le donne sono sempre tutte schierate da un medesimo lato, rivolgendosi verso un punto di fuga comune su cui poi si appoggia l'attenzione della mdp, come se concentrasse i loro sguardi; mentre gli uomini si fronteggiano, seduti ai bassi tavolini del caffè; esse hanno una visione comune delle cose, addirittura sbottano la loro tensione all'unisono ("Ho una cosa da dirvi"), gli uomini disputano con pacatezza di fotografia (in B/N), lavoro di Quoc, e di racconti, mestiere di Kïen: in pratica discutono dell'essenza del cinema attraverso i suoi elementi fondanti – ma non ci accorgiamo se ci sono intenzioni metalinguistiche – mentre le donne lo riempiono dei sentimenti: "Occorre considerare la prospettiva, basta uno scarto e cambia la luce", appunto l'equilibrio estatico ricercato (provando a cambiare la luce e vedere l’effetto che fa) ma non accolto supinamente, in modo che permanga quel dinamismo essenziale al film.













Ci sono poi momenti di nouvelle vague nei quali si riconosce in tralice la volontà del regista di mettere in scena situazioni fini a se stesse (come nel migliore Wong Kar Wai di Hong Kong Express): il piacere di girare un bacio d'addio sotto la pioggia senza che per forza si debba trovare un senso a cui adeguare lo script; e poi addirittura inserire il tocco di genio di scardinare l'atmosfera melensa che sta per crearsi, non attraverso il tocco glamour che avrebbe caratterizzato Wong Kar Wai, passando invece repentinamente ad un nuovo registro, nel quale si passa alle comiche e alla battaglia di cuscini. E allora si dispiega il motivo di fondo del film: recuperare una memoria non sua. Il rapporto con il Vietnam abbandonato da bambino, sequenze che frullano nella testa, compongono un film mentale e finalmente trovano forma in una situazione altamente cinematografica a partire dalla battuta che apre la sequenza: "Io fumo perché piove", malinconica e melodrammatica, ma in sintonia con il linguaggio scanzonato della nouvelle vague; la sequenza si conclude su un'altra battuta che scompone persino la messa in scena e trasforma il clima metaromantico, introducendo ancora una volta l'elemento commestibile per uscire dalla trappola e impedire allo spettatore di oltrepassare la soglia oltre la quale scatterebbe il rifiuto di una situazione stiracchiata: invece la scelta dei tempi è perfetta e sorprendente e la battuta fulminante: "Ho un po' di fame, mi è venuta voglia di patate", come per l'intero film: una battuta normale che però nel momento in cui si aspetta il fatidico bacio diventa una trasgressione inaccettabile, se non con un sorriso complice.


La banda gialla che divide lo schermo in due parti perfettamente uguali avviando i titoli di coda è simbolica dell'equilibrio mantenuto dal film per tutta la durata della proiezione, che – come annunciato – tende a "fissare la serenità": un costante esercizio al limite del calligrafico, sul ciglio dell'estetizzante, ma sempre riuscendo a rimanere nel godibile, mai superando la soglia dello stucchevole. Quella precisione, quel momento di estati statica ripetuto in più occasioni nel film contribuisce a creare quella sensazione di immobilità a cui tende già il lento ridestarsi fin dall'inizio e si mantiene anche nella storia, cadenzata geometricamente dai risvegli che fungono da sipari delle situazioni in cui la mdp ci immerge anche grazie alla scelta di avvicinarsi ai soggetti il più possibile, infilando addirittura delle macro (ad esempio sulla pelle del pollo, ma parlando del pene senza volgarità: "Fritto in padella è croccante". Inquietante assimilazione di quella pelle avicola tesa e "non rotta" con l'immaginario sessuale della più giovane ed inesperta delle tre sorelle) a scandire i rituali: dalla zampa di gallina al pollo tagliato si attraversano momenti incastonati l'uno nell'altro capaci di riassumere l'intero film: l'incontro tra il "gentile Tuan" e la "diletta Lien", i risvegli dei fratelli attratti senza mai essere morbosi, eppure conturbanti e protagonisti di sveglie con Lou Reed tutti uguali, ma divergenti per minimi dettagli, come le giornate; i due cognati, fastidiati e in crisi nei loro idilliaci rapporti con le consorti, incapaci di risolvere gli imbarazzi, se non attraverso la chiarezza di analisi delle donne ed il loro decisionismo; ma soprattutto le tre sorelle, delle quali in quelle poche inquadrature della preparazione del pollo cogliamo la complicità, il legame, la distensione derivante dalla loro unione, descritta con l'equilibrio, cifra, obiettivo e sensazione di tutto il film.



Un equilibrio intessuto anche sulla ricorsività: anche la madre, figura attorno alla quale si condensa la narrazione, aveva avuto una passione per un Tuan (nella ricorsività indispensabile al ritmo è lo stesso nome di uno degli spasimanti di Lien) e la ricerca di questo amante a distanza di anni diventa un gioco che coinvolge tutti e condiziona i destini.

L'accettazione di una composizione dei conflitti si fonda su un principio di tolleranza, possibile solo attraverso una grande serenità e tramite la consapevolezza dell'esclusività di certi legami che possono impedire (è il caso della scappatella non consumata da Kïen nella stanza #324) per improvviso scarso interesse o rendere altre storie irrinunciabili (la bellissima storia sulla palafitta nel Golfo del Tonchino, un luogo incantato che rappresenta facilmente una sorta di age d'or perduta e conservata tra quei picchi arrotondati). In ogni caso, tristezza e senso di colpa oppure di contro sicurezza e soddisfazione, non scalfiscono la equilibrata serenità che trasuda dalle inquadrature, tutte degne di essere annoverate in una galleria di incisioni, ma nemmeno lascia in una statica palude i rapporti tra le persone, che evolvono tutte con gradualità di "impercettibili sfumature". Nonostante che nessuna scena madre venga ripresa direttamente: l'inqudratura si sposta o con panoramiche su vasi di fiori o con campi lunghissimi nel momento in cui si avverte che sta per consumarsi una rottura. Semplicemente si articolano i tre modi, tutti travagliati, di approccio alle passioni: c'è chi vive le passioni (e le fotografa); chi le racconta (e le scrive fino nel dettaglio dello schermo televisivo filtrato dalla sottoveste) fino a confonderne l'effettivo accadimento con l'incontro di una vecchia amica – ma forse è avvenuto veramente, come forse la giovane non è veramente "sorellina" di Hai – e finire con l'instillare un sospetto erroneo nella moglie incinta; e chi ha un approccio "dietetico" alle passioni al punto da imporre un patto di silenzio e le labbra come succedaneo della parola, forse per non consumare integralmente la passione o forse nella consapevolezza che in altro modo scalfirebbe irrimediabilmente l'armonia che sparisce integralmente anche solo a fronte di una minima abrasione. E questo approccio "dietetico" spiega anche l'importanza del cibo che accompagna tutto il processo del film: come spesso avviene nei film orientali, il cibo diventa occasione per mediare visioni del mondo e agevolare l'accesso all'atmosfera. Allo stesso modo una predisposizione alla sessualità pacata consente di aggiungere tasselli all'adozione di uno sguardo poetico verso la memoria; non si fatica ad attribuire a letture classiche (il nobel Kawabata in primis) la radice di affermazioni tipo: "La nuda carne calda consola dalla tristezza attraverso il dolore lancinante in mezzo al petto". Potrebbe essere il riassunto di La casa delle belle addormentate, romanzo senile dello scrittore giapponese suicidato trent’anni fa, popolato di donne consolanti con la sola presenza corporea, ma non oggetti, bensì soggetti che della loro attesa sanno trarre linfa per risultare figure decisive.