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Scratches in the Table
Anno: 1998
Regista: Ineke Houtman;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Olanda;
Data inserimento nel database: 09-03-2000


Scratches in the Table

Scratches in the Table

di Ineke Houtman, Olanda, 1998, 90´

7° Festival Internazionale

Cinema delle Donne
Torino marzo 2000

La gabbia.

Esplicita favola sul disagio femminile di chi mal sopporta un mondo privo di gioia di vivere. Probabilmente, vista l’opacità delle figure maschili, la difficoltà di irradiare l’energia giocosa e sovversiva di Marie va ascritta alle norme che regolano il mondo di quegli uomini poi impegnati a tramandare apparenze falsificate sull’animo dei ribelli. Solo post mortem il nonno della giovanissima protagonista undicenne è disposto a capire le richieste avanzate dalla moglie quarant’anni prima; tuttavia gli risulta difficile anche solo individuare le costrizioni a cui ha volontariamente deciso di sottoporsi.

A questo proposito interessante è l’insistenza sul simbolo del titolo vergato a graffi sul tavolo, che Madelief, la bambina sedotta dall’alone di mistero creato dalla nonna intorno a sé, interpreta, rimettendo insieme tutti i dati raccolti sulla sconosciuta ava, come un volto dietro a due sbarre.

Una duplice personalità.

Ben realizzato anche il primo impatto con il casotto estivo della nonna e tutto quello che gravita attorno alla capanna di legno stessa, costruita amorevolmente dal nonno ammaliato dalla donna che gli aveva chiesto un luogo esclusivo per sé: possedeva una personalità che sapeva imporre il proprio volere, eppure non fu sufficiente a liberarsi di tutti gli steccati e quindi, non avendo avuto la forza di trascinare il suo uomo alla completa liberazione da convenzioni e abitudini (come invece aveva fatto nella prima sequenza, in cui supera la sua riluttanza a trasgredire le regole con un bagno nudi), si ritrova costretta al punto da bloccarsi anche fisicamente e irrigidirsi per reazione nella pratica ossessiva della pulizia e dell’educazione rigorosa. La prima volta che Madelief riesce a entrare in quell’antro meraviglioso siamo sopraffatti dagli oggetti: maschere di paesi lontani, modernariato seducente e sottolineato volta per volta con la musica adatta a evocare il significato delle tracce riconducibili a quei singoli elementi, ben diverso l’impatto rispetto all’ingresso nella casa asettica.

Un reperto.

I segni lasciati dalla donna sono toccati con molta levità dalla regia, che attribuisce alla bambina un ruolo di unica destinataria capace di districare i dubbi sulla reale esistenza di Marie, forse persino gli spezzoni che prendono movimento dalle diapositive dell’unico viaggio del 1955 a Brussel traggono suggestioni dall’immaginario fanciullesco, come le frequenti inserzioni oniriche utilizzate per aggiungere volta per volta un tassello al puzzle che la ragazzina va creando sotto i nostri occhi, che si beano di una narrazione classica, perché mantiene le premesse iniziali di recupero della memoria come indagine psicologica attraverso oggetti e mezze parole. Soprattutto si demanda il prosieguo del racconto agli sguardi tra protagonisti e all’osservazione delle tracce di una denuncia tacita ("Tua nonna parlava poco"), eppure così patente e esplicitata dalla madre di Madelief: "Una volta le donne erano stupide perché facevano quello che volevano i mariti", la cinepresa diaframma e gioca con le sfocature per sottolineare con l’espressione del nonno, colpita dall’asserzione, che quello è il punto focale del film. Una sintassi canonica, ma efficacissima e godibile.

Ed è originale che questo venga spiegato attraverso la voce della nonna incisa su un nastro custodito nel capanno. Riporta un dialogo tra i due nonni che coglie con precisione il momento del cambiamento di atteggiamento verso la vita di Marie: il rifiuto del marito di cambiare vita, di mettersi in gioco, di fuggire dall’asfittico villaggio di Raerem in Olanda. A questo scopo l’attenta sceneggiatura non dimentica di collocare alcuni siparietti sulla comunità, esplicativi della grettezza e della incomprensione.

Sogni chiavi e dirigibili

Non solo la tana arredata dalla nonna fa parte dell’aspetto fiabesco, ma anche il divieto trasgredito, la chiave e l’aiutante magico, i sogni non del tutto lontani dalla realtà, la piroga del gioco...: tutti elementi che, anziché scardinare l’impianto mirato a descrivere una realtà di rigore maniacale, lo arricchiscono di aspetti che la pura realtà impedirebbe di cogliere e consentono di accettare l’irrevocabilità della morte, mentre parte del succo del racconto si svolge in una twilight zone popolata anche dalla nonna, che aveva scelto all’improvviso di smettere di sognare; non lesse più e cominciò a pulire la casa. Sconfitta (e rancorosa): il suo rinchiudersi nel mondo del capanno, che era lei stessa e ciò che non avrebbe mai potuto fare, si esprime chiaramente in quella splendida immagine - che è quella maggiormente a cavallo tra sogno e realtà - nella quale la vediamo chiudere le ante, lasciandoci al di fuori della sua vita immaginaria di viaggi: infatti tre sequenze oniriche ritraggono il ricordo di tre episodi del viaggio a Brussel a partire dalle foto – e quindi adottando lo sguardo trasognato della donna inebriata di libertà – ed ognuna di queste ci viene prospettata da un punto di vista ogni volta di una persona diversa che interpreta in modo differente quella parentesi spensierata della defunta. Infatti, e forse il dirigibile finale che si allontana serve a ricordarcelo, l’intero film si configura come un’elaborazione del lutto di gente che fatica a rendersi conto di non aver capito e amato una donna eccezionale e attraverso le sue testimonianze, disseminate nel capanno e riconosciute dallo sguardo innocente e curioso di Madelief, cominciano a coglierne la profonda umanità, fino a presentare come ultima sequenza l’estremo giorno di Marie, quando il marito le chiede perdono, consapevole di averla fatta soffrire.