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R-Xmas
Anno: 2001
Regista: Abel Ferrara;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 16-11-2001


R-Xmas

R-Xmas

di Abel Ferrara

Usa, 2001

Abel Ferrara si presenta alle 16 apparentemente sobrio; è accompagnato da un guardaspalle accreditato del ruolo di "producer". Potrebbe essere suo fratello, Caino. Sicuramente incrociandolo in un vicolo non farei storie a lasciargli volontariamente il portafoglio. Come è ovvio il regista di Il cattivo tenente non dice nulla: è sufficiente l'andatura ingobbita e sincopata, lo sguardo mobile eppure un po' perso per assicurare che lui sa di cosa parla, quando parla di storie di droga.

In Traffic Soderbergh suggeriva compartimenti stagni di universi dislocati spazialmente a enormi distanze e anche quando si sfioravano e interagivano tra loro, si trattava solo di un momento di subitanea collisione tra interessi e culture impermeabili e quegli sporadici casi servivano a produrre momenti di conflitto tra mondi che per il resto avevano loro codici, procedevano paralleli, come a voler suggerire un puzzle di situazioni scomponibili attraverso quel montaggio preciso che scandiva i linguaggi: spagnolo al di là di Tijuana, yankee nel territorio Usa e spanglish quando capitava che i personaggi più esposti all'interazione con entrambi i mondi si trovassero a raccordarli.

In R-Xmas tutti parlano mescolando il portoricano allo slang newyorkese, ma non basta: tutti i piani si confondono; la precisa scansione del montaggio di Soderberg, che immaginava di poter salvare almeno certe sacche di convivenza civile anche nel momento in cui metteva in mostra il contagio diffuso ovunque perde qualsiasi ragione di esistere: la lucidità è un lontano ricordo. Nulla a che vedere con la visionaria contaminazione di ogni aspetto della realtà: protagonista del film di Ferrara è addirittura una famigliola in periodo natalizio. La profusione di "Feliz Navidad" è pari solo al miele che gocciola giù dagli schermi televisivi da cui finiamo di assistere alla recita scolastica della bambina della coppia di spacciatori, una felice coppia mista: lei bionda anglosassone e lui dominicano bruno. Ma soprattutto dovunque ci giriamo siamo avvolti da serie di dissolvenze incrociate che ordiscono una trama fittissima di luoghi e situazioni; la lucidità di Traffic si trasforma in un racconto in cui pure i protagonisti finiscono con il perdersi e anche l'autore è poco interessato (gli bastano pochi puntelli: il traffico a conduzione familiare, la bambola, il rapimento, la trattativa, la liberazione sono essenziali punti di riferimento per creare ‘storie malate’, virate da luci glaciali o tagli contrastatissimi nella notte), perché qui siamo dalle parti della tesi opposta a quella convenzionalmente rassicurante di Soderberg. Non c'è luogo che non sia marcio, persino la ‘avuelita’, come la chiama la bambina, è al corrente dei traffici; dunque una trama ferrea, magari scandita da didascalie, sarebbe inutile: il racconto non ha alcuna importanza, quello che è basilare sono le sensazioni – una per tutte è la sequenza fatta di indugi, ondivaghe riprese all'inseguimento di un giovane spacciatore abbandonato per un altro per poi riprendere le scommesse dei cestisti... Non avviene nulla, ma è il più bel pezzo di cinema sull'argomento che mi sia capitato di vedere: non denuncia né registra, semplicemente si lascia distrarre a seguire movimenti senza causa-effetto apparente, quella relazione è evidente nello sparo finale al pallone che rimbalza sull'anello e non sapremo mai se va dentro o no, come non sapremo quale banda manterrà il controllo della zona – e sono le uniche che riescono a districarsi da quella maglia di dissolvenze incrociate spesso sovrappposte a grate che aggiungono trame a retinature dell'immagine fino a mescolare tutti luoghi, tutto il mondo in un unico crogiuolo di dipendenza, inscindibile nel non ricostruibile percorso da una dissolvenza all'altra, da un riflesso sul parabrezza all'altro, unica concessione alla realtà natalizia, le luci riflesse riverberate. A questo proposito persino la rincorsa alla bambola, regalo natalizio per la figlioletta, ha un epilogo grottesco in uno scantinato, dove la trattativa faticosa viene condotta fino all'improbabile "Merry Christmas", pronunciato senza convinzione, che fa il paio sul crocefisso appeso su cui indugia lo sguardo della mdp, mentre preparano le dosi come un qualunque lavoro nero in casa. Ma anche nell'immancabile chiesa dei film di Ferrara la panoramica indugia senza sapere di preciso cosa ricercare, ma non si tratta di una carenza registica o di un momento di scarsa vena creativa, anzi quella remora ha il valore di una dilazione dell'azione, come se si volesse trovare un suggerimento in quell'atmosfera di incensi, muti però.

La vicenda è collocata alla fine del mandato del sindaco Dinkins, nero democratico, e l'anarchico Ferrara lo rimarca con una punta di scherno doloroso, senza speranza: queste storie avvenivano allora, ma l'epilogo capitava a ridosso del mandato per Giuliani, l'eroe della ‘tolleranza zero’, e non è propriamente un finale edificante per la sua polizia tanto esaltata, anche ultimamente. Il racconto ottocentesco, pieno di buoni sentimenti – ma già girato per strada mostrando i vicoli del sottoproletariato alla Dickens –, stempera i suoi colori seppiati nelle righe della definizione dei video che completano l'atmosfera natalizia di fuochi d'artificio. Questa apparenza di buoni sentimenti è già minata dall'interno: troppo prolungata e troppo esagerati i dettagli tipici dell'iconografia, fastidiosa anche per la nonna che non vede l'ora di cambiare canale televisivo e il fatto che il regista indulga così a lungo nel prologo trova un significato proprio nel fatto che non essendoci nulla di pulito al mondo, insiste per evidenziare l'esteriorità falsa, che infatti si scatena nella caterva di improperi che prorompe dalla donna che non riesce ad aggiudicarsi la bambola dallo scaffale (sketch già interpretato da Schwarzenegger in modo meno tragico); per seguire questa prima parte gli autori adottano un ritmo rallentato che inizia a prendere velocità da quando cominciano a inanellarsi le dissolvenze incrociate che, pur dislocando localmente, uniformano gli ambienti, così i due appartamenti sembrano dare luogo a vite parallele, che però si confondono grazie alle continue sovrapposizioni di piani dati dalle dissolvenze.

L'autore intercala un mondo triste di personaggi a disagio, pedinati – non solo dalla mdp – senza che capiti nulla fino al rapimento dello spacciatore, un rapimento anomalo, brutale, ma con metodi moralisticheggianti e pestaggio, preparato da un ballo tra i due coniugi che svelando il loro reciproco attaccamento pone le basi per l'impegno della donna nella salvezza del marito. Però anche lì non c'è gioia, passione, trasporto, ma sospetto e sconsiderate imposizioni; fino alla inquadratura quasi completamente impallata dal sedile dell'auto, dopo la quale l'esistenza tranquilla viene sconvolta dal rapimento e la velocità del ritmo si incrementa per arrivare a quella sequenza in cui si confronta l'anomala brutalità del poliziotto-rapitore con la dedizione confusa della donna, nel buio che esalta l'oscuro ruolo ambiguo di Ice T.

Dopo la liberazione si riprende il ritmo trasognato, come quando viene montata di nuovo la ripresa del ciclista, uguale, come in New Rose Hotel avveniva più volte per riuscire a ricostruire cosa era successo (prima di Memento). Una nuova ripresa di quella sospensione, interrotta solo da sequenze da antologia come gli spezzoni sincopati sulle note jazz del locale della festa, dove si ricomincia. E trasognati usciamo pure noi; forse solo per questo nessun applauso: siamo troppo ‘incantati’ dalla nostra condizione addicted.

"to be continue...". Anche con Giuliani e col miliardario suo rampollo.