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Polvere di Napoli Anno: 1998 Regista: Antonio Capuano; Autore Recensione: Marcello Testi Provenienza: Italia; Data inserimento nel database: 11-08-1998
Visto al
51 Festival di Locarno
Polvere di Napoli
di Antonio Capuano
sceneggiatura Antonio Capuano, Paolo Sorrentino; fotografia Pasquale Rachini;
montaggio Giogio Franchini; musica Marco Zurzolo; interpreti Silvio Orlando,
Tonino Taiuti, Lola Pagnani. Italia, 1998, 35mm, colore, 105'
Sulle orme di DeSica, l'oro si tramuta in polvere (o forse solo svela crudelmente
la sua essenza) e raccogliendola si formano cinque mucchietti, cinque episodi
diversi per tono e forma, accomunati solo dalla "mano" del regista,
un tocco che conferma la sua appartenenza al gruppo dei Vesuviani,
gruppo virtuale di autori autonomi che sembrano però respirare la
stessa aria, mettendo anch'essi in pratica, forse meglio di Mazzacurati)
il vincolo del proprio cinema al territorio. Anche qui Napoli (il Territorio,
appunto) si propone come fautrice di un immaginario sognante (lontano, però,
da un cinema della fuga) e in fondo anche cinefilo sui generis: come
si è già visto fare a Corsicato, qui Capuano fa il verso (tra
gli altri) al più giocoso Russ Meyer, in un episodio "arbitrato"
dalla esplosiva aspirante starlette Lola Pagnani.
Grazie all'unione con la terra (non a caso il film si conclude al ritmo
forsennato di un jazz che ritrova sull'asse Caserta-Parker-Coltrane-Davis
- non detto - le sue radici afro) le figure umane si stagliano nitide, su
un orizzonte che limpido non è, ma afoso, soffocante, a tratti infernale.
Così ci ricordiamo dei due giocatori scalognati, vittime di un girone
che essi stessi hanno creato, trasfigurati in animali che per un attimo
sembrano prendere possesso della città (ma chi conta veramente sono
i macellai) ci perdiamo nei volti (anch'essi rapidamente cangianti) di due
coniugi in eterno litigio, che riscoprono in dissolvenze surreali la città
che pensavano di non potersi permettere, opure nella maschera di un disoccupato
autore di un pezzo di bravura tale da meritargli, a fine episodio, l'apparizione
di Richà Gi; ricordiamo anche le due diverse parti affidate a Silvio
Orlando: la prima una macchietta evanescente nell'episodio vicino a Russ
Meyer di cui ho già accennato, la seconda un personaggio che "nasce"
in atmosfera sognante e retrò, finisce in un incubo post-industriale
campano da cui esce solo indossando la maschera esile e la voce di Totò,
ma viene definitivamente salvato solo con l'aiuto dei jazzisti improvvisatisi
raccoglitori di pomodori, in un finale visivamente molto sessantottino e
"free".
E queste figure, cosi' come si fanno ricordare, catalizzano sentimenti in
questa memoria.
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