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Moloch
Anno: 1999
Regista: Aleksandr Sokurov;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Russia;
Data inserimento nel database: 16-06-2000


Moloch

Quando la proiezione fu terminata, qualcuno mi chiese ragguagli sull'intrigo per uccidere Hitler. La discussione si spostò sugli intrighi in genere. Mi trovai a dire alle teste lì riunite: ¨Tutti gli intrighi tendono alla morte. È la loro natura. Intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi, intrighi dei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci accostiamo all amorte. È come un contratto che devono firmare tutti, chi intriga come coloro che son i bersagli dell'intrigo¨
Don De Lillo, Rumore bianco, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p.30

MOLOCH

 

Regia: Alexandr Sokurov – Sceneggiatura: Yuri Arabov – Dialoghi: Marina Koreneva– Fotografia: Aleksei Fyodorov e Anatoli Rodionov – Montaggio: Leda Semionova – Scenografia: Sergei Kokovkin – Costumi: Lidiya Kryukova – Suono: Vladimir Persov, Sergei Moshkov – Interpreti: Elena Rufanova (Eva Braun), Leonid Mosgovoi (Adolf Hitler), Leonid Sokol (Josef Goebbels), Elena Spiridonova (Magda Goebbels), Vladimir Bogdanov (Martin Bormann), Anatoli Schwederski (il prete), Russia, Germania, 1999, 103’. (Lenfilm e Zero film, con Fabrica, Arte/wdr. Fusion Product) –Distribuzione: Istituto Luce

 

Colpisce immediatamente la sintonia tra l'imponenza di cartapesta della fortezza e la vacuità dei personaggi che la popolano, tanto che la carne rosea di Eva - avvolta nel flou della fotografia che spalma il colore su tutto il quadro - non riesce a vincere il grigiore della pietra squadrata; e subito dopo riaffiorano alla memoria le immagini espressioniste create dalle menti già infitte nell'incubo nazista, costellate da contorte architetture, scalinate inquietanti, tagli obliqui colmi di ambiguità; di seguito registriamo l'evidente sarcasmo amaro verso le immagini e le posture - bellissime - inventate da Leni Riefenstahl (Das Blaue Licht), quando Eva assume posizioni plastiche, quasi una polena sui bastioni del castello arroccato su monti ripresi successivamente durante la passeggiata con il pensiero rivolto a Luis Trenker e infine veniamo sommersi dall'afflusso di riconnotazioni derivanti dal titanismo romantico delle atmosfere che avvolgono il cucuzzolo in nebbie degne di Murnau (Faust in particolare), che puntellano di scorci i passaggi alla Kaspar David Friedrich (o dell'Herzog più ispirato di Herz aus Glas) tra una sequenza in cui nulla avviene e l'altra altrettanto svuotata di eventi. É come se la minaccia captata dagli autori tedeschi prima dell'avvento del nazismo, trovasse una corretta interpretazione a posteriori nella riproposta dei loro stilemi adattati alla consapevolezza dell'orrore compiuto, quindi con l'esigenza di trovare una forma per poterlo accettare, e questa è il grottesco: si viene realizzando una critica del fascismo a partire dall'estetica. La fortezza conferisce il tono lugubre e sottrae umanità alle figure, è una specie di sfida che ricalca positure dettate dal regime persino l'esibizionismo di Eva di cui siamo complici sia attraverso il binocolo sia rilevando le figure inespressive che spiano i gesti, le cagate all'aperto, rappresentate come prive di giudizio autonomo; infatti appare subito il marchio nazista a brutalizzare una miniatura di portaoggetti vezzosa, su cui la croce uncinata agisce da fattore di disturbo del gusto, come se si fosse voluto guastare il sublime dell'infinitamente piccolo, come già avviene per il titanismo della natura privata della luce solare dalle nebbie della follia in cui già i registi espressionisti ammantavano l'angoscia.

Ma non è il citazionismo la cifra dietro la quale si accumula il disgusto, che prende evidentemente anche la annoiata e incomprensibilmente innamorata Eva; non vi è la solita decadenza wagneriana e non assistiamo alle inaccettabili torture del Salò di Pasolini, o all'introspezione metaforica di Mephisto di Istvan Szabo. Piuttosto anche stavolta come in Lo Specialista assistiamo all'analisi spietata della "banalità del male" e dunque di nuovo l'autore si rifà allo studio del nazismo di Hanna Arendt e lo esplicita quando Eva psicanalizza il Capo: "Hai sempre avuto paura della banalità, perciò sei così duro". L'aspetto domestico comunque non annulla tutto questo bagaglio che comunque entra in gioco al solo accenno relativo ad Auschwitz, parola gettata innocuamente dalla dispettosa Eva in faccia al suo Adi affetto da amnesia e confusione mentale: quell'immagine ormai stereotipata del nazismo rimane momentaneamente spettatrice di puerili battute, ma comunque ammanta l'atmosfera già soffocante della magione con una cappa di reticenza e di demenza, che nemmeno il realismo del vaniloquio documentato da Lo Specialista poteva lasciar percepire con questa tangibilità trasudata da ogni inquadratura che la normalità rende più sinistra; quadri, precisi sempre, ma combinati in modo da disturbare la percezione e dare una sensazione di avversione per l'innaturalezza e l'artificiosità dei gesti di ciascuno o per l'ingresso in campo di corpaccioni mostruosi, enfiati a dismisura dagli accorgimenti ottici

E questo conduce all'altro intervento registico che, oltre a sfruttare l'ambiente ricalcato sui parafernalia di Portiere di Notte per trasmettere angoscia, agisce sulla deformazione dei corpi: l'uso del grandangolo aggiunge goffaggine alle figure mostruose, che Sokurov si diverte ad allargare a dismisura e a far muovere come freaks, esaltando una fisicità già predisposta al fenomeno, schiacciata dalla inquadratura, costretta in ambienti soffocanti; addirittura Eva viene sfumata dagli effetti fotografici flou tipici del cinema di Sokurov su una poltrona celeste vestita con un indumento del medesimo colore: l'effetto straniante è di una faccia enorme e priva di corpo che si agita come un manichino issata in modo innaturale ad interagire con uno spazio che è un'enorme prigione triste, abitata da mostri, che non sono caricature di mostri, ma incorporano nella loro descrizione grottesca anche la macchietta di se stessi e dunque anche Eva perde l'apparente legame con la natura che aveva tentato di salvaguardare nelle prime sequenze. Da ciò discende la confusione se il moloch siano loro, o se la divinità cananea assetata di sangue sia un riferimento adeguato per quella costruzione che si sono fabbricati attorno e li fagocita, riducendoli a ominidi ridicoli, ulteriormente dileggiati dagli effetti adottati direttamente in ripresa: lenti cosparse di vaselina, effetti di mascherino, sovraesposizioni al limite dell'astrattismo, forti contrasti di luce improvvisi (i finestroni della sala inondano lo schermo ritagliando i personaggi come figurine prive di spessore al termine di un pranzo demenziale, riempito dagli spropositi del Fürher, anticipando le silhouette delle SS sul crinale della vallata dove assistiamo all'assurda danza) per drammatizzare in senso espressionista il kammerspiel che si va creando dalla commistione di horror gotico e video famigliare, tra raffinato studio di quello che fu formalizzato dal linguaggio epocale e la rimeditazione post-moderna di un orrore che si trasmette come banale: più che al solito ritratto di Hitler assistiamo ad una sua forma ancora più beluina e in preda a vaneggiamenti nel dormiveglia.

Solitudine e debolezza sono i due altri sentimenti che la foschia aiuta a esprimere: il primo provato da Eva, il secondo comune a tutti. Ed è l'aspetto più vicino al film precedente, dal quale si discosta per l'esasperazione dell'esaltazione, che risulta essere l'altro sviluppo possibile di fronte all'incombenza della morte rispetto al silente lirismo della pietas in Mat'i Syn (Madre e figlio, 1997) e che raggiunge il climax nell'episodio della sala da proiezione. Le masse disciplinate e inneggianti dei documentari trovano spazio soltanto su uno schermo ancora più bidimensionale di quanto già non siano la maggioranza delle riprese, appiattite e rese più inconsistenti dall'espediente di lasciarle scorrere come quinta scenica alle spalle di Eva e della moglie di Goebbels per nulla attratte dal cinegiornale, stroncato dal capo con pretesti, ma ancor prima rifiutato come documento dall'indifferenza del regista, il quale si impegna a dotarle con evidenza di quell'ambiguità che le rende variamente interpretabili, sottraendogli forza attraverso l'ombra di Hitler che dirige la musica ripreso dal retro del telo su cui scorre il film. Un inserto che da solo fa giustizia di qualunque propaganda e dei molti addentellati tra nazismo e cinema.

Rivelatore il dialogo finale ci viene scaricato velocemente a sancire un destino attorno al quale si muove l'intero film: le ipocondrie, le sequenze nel bagno, dove anche l'intimità si avvolge attorno alla incapacità di accettarsi, in particolare la propria natura mortale. Infatti il film ruota attorno alla morte che sotto ogni aspetto lo ammanta e qualunque gesto contiene un'allusione ferale: è l'unica cosa reale in mezzo a quei manichini, che con le parole del suo capo in partenza dal ricovero smargiasso profferisce: "Presto noi sconfiggeremo la morte", rimbeccato da Eva: "Come puoi dire questo. La morte è la morte. Non la si può dominare". Appunto: l'unica attrice del mondo che può permettersi di considerarsi effettivamente esistente anche se ripresa in anamorfosi. E allora si spiegano le dominanti e le luci slavate: il cinema di Sokurov è la decomposizione al lavoro.