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Mifune
Anno: 1999
Regista: Soren Kragh-Jacobsen;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Danimarca;
Data inserimento nel database: 06-12-1999


Mifune#3

MIFUNE

Dogma#3


Sceneggiatura e regia: Søren Kragh-Jacobsen
Fotografia: Anthony Dodd Mantle
Musica: Thor Backhausen
Interpreti:Iren Hjejle, Anders Wodskou Berthelsen, Jesper Asholt, Emil Tarding, Anders Hove, Sofie Gråbøl
Produzione: Aki Kaurismäki
Distribuzione: Keyfilms
Provenienza: Danimarca
Anno: 1999
Durata: 98 min.




Dopo lo slancio pseudoavanguardista il dogma segue il processo artistico anche nel ritorno all’ordine, confezionando un film classico nell’impianto e nel racconto, dal quale ritaglia brevi momenti di "dogmatismo", che rintuzzano la supposta carica eversiva del movimento scandinavo.
Ovviamente non mancano i vezzi del Dogma95 e quest’opera di minore originalità rispetto a Idioterne risulta utile per isolare con maggiore precisione le peculiarità e i limiti della maniera di questi realisti ontologici, al di là delle provocazioni tecniche - qui meno fastidiose, ma anche più tradizionali e quindi innocue dal punto di vista della proposta relativa alla combinazione dei segni, apparentemente nuovi: la perlustrazioni degli ambienti con camera a mano dimostra qui le sue funzioni sintattiche precise e ripetitive di introduzione alla materia trattata, ma questa associazione riduce l’impatto perché diventa, appunto, maniera, e svelando l’intento narrativo fisso di un passaggio tecnico (la carenza di luce trova ragione nella fatiscenza della casa, che funge da spazio molto limitato in cui rinchiudere i personaggi, ottenendo in questo modo una falsificazione della realtà che si riflette a tutto il movimento, che sia in Idioterne sia in Festen isolava già gli attori in case-mondo) ridimensiona le velleità di mostrare il disturbo della comunicazione attraverso l'uso strumentale di quello psichico, qualora la narrazione sia zeppa di filtri, che, anche nella loro negazione, producono lo stesso effetto straniante. In questo modo si restituisce un metodo metaforico sicuramente poco innovativo e in aperta contraddizione non tanto con i dogmi, quanto con l’intento che questi coprono con il falso modo scanzonato di imporre regole, ufficiosamente per disattenderle (salvo poi prenderle sul serio nelle immagini quasi illeggibili per carenza di luce e ballonzolî). Insomma il film di Søren Kragh-Jacobsen rivela delle funzionalità stilistiche estensibili agli altri dogmatici, e in questo modo denuncia come accademia il sistema narrativo abbracciato da questi registi, dunque sostanzialmente non realistico come vorrebbe spacciarsi, né iperrealistico come ambirebbe di risultare, ma addirittura si mostra costruito su strutture fisse, tasselli di puzzle ripetitivi, validi universalmente per serie di situazioni assimilabili, soprattutto per il fatto che i temi si sovrappongono o si fanno coincidere con espedienti di sceneggiatura, che spostano improvvisamente il luogo e le situazioni.




Infatti fin dall’inizio si avverte l’atmosfera della famigliola di Festen e come avviene negli altri casi si avvia il film attraverso un quadretto quotidiano: la ripresa del matrimonio quasi come fosse un filmino familiare ricalca il funerale iniziale del film di Vinterberg. Però con il dolly, o comunque con una ripresa differenziata dal duplice punto di vista dall’alto che spezza l’unità di spazio e tempo e dichiara la presenza di una regia, che non manca di rimarcare i momenti sordidi con riprese da rasoterra, rivelando un nuovo codice sintattico, applicabile universalmente. Ma come avviene nel Dogma, la storia trova sviluppi inopinati, che conducono sempre presso luoghi isolati e carichi di recrudescenze, in questo caso manifestate dall’antico amico del giovane Kersten, abbandonando la situazione iniziale, come se si volesse tentare uno spaesamento che, diventando di routine, perde il suo valore di sorprendente eversione.

Anzi: l'accademismo contraddice gli intenti avanguardistici, anche e soprattutto per il reiterarsi del tema forse più caro e con maggior parentela con le avanguardie di tutti i tempi; la devianza, che compare in tutti i film del Dogma95, sempre in relazione alla famiglia, in omaggio alle tendenze lacaniane dei surrealisti. Ma il gioco è troppo scoperto e la contrapposizione risaputa tra mondo del disturbo psichico e comunità distorta nella norma diventa stucchevole proprio nei momenti di dirompente disvelamento: quando Kresten esplicita furioso a Rud, il fratello minorato, il suo stato psicotico per la mancanza di una famiglia da ricreare ex novo con i reietti (uguale all’impianto della comunità di Idioterne). Nelle ragioni - da psicanalisi d'accatto - della sua malattia si coglie la cifra del marchingegno messo in atto più scopertamente che nei film precedenti, perché il palinsesto in cui si inserisce mantiene dinamiche narrative precise, a partire dal quadretto della famiglia alto-borghese della moglie, divario che si vorrebbe ridicolmente porre al centro di una coscienza di classe mai troppo seria in un'opera incentrata sul disagio del singolo, ma utile per dare unità al racconto, quando non trova modo di darsi un senso nella quantità di eventi, telefonini, auto di lusso e rottami con radio, scopate più o meno selvagge, sentimenti prevedibili nei loro meccanismi scatenanti, botte e soprattutto evocazione del samurai. Quest'ultimo è l'elemento che potrebbe regalare una legittimazione al movimento di Von Trier, se avesse trovato una mano registica adeguata: contrario ai canoni del decalogo perché cerca riferimenti metalinguistici anziché nella realtà (ma non è l'unica deroga: ci sono episodi di musica off che s'insinua blasfema a sottolineare l'irrealtà della soluzione poco originale affidata alla riffa del concorso), innesca un bel sodalizio tra i due fratelli, trovando nella camera a mano uno splendido alleato per la perlustrazione delle soffitte mentali, che riconducono all'infanzia (in questo gli scandinavi sono maestri), però poi il tema viene abbandonato per soffermarsi sulle sensazioni della squillo in fuga dal maniaco, ma soprattutto dal proprio disagio. Lo scandagliamento del rapporto tra i due fratelli viene lasciato allo spazio legato all'auto-rottame-rifugio nel bosco, quanto di più risaputo e affabulativo si potesse escogitare. Pari al cameratismo con il vecchio compare meschino, violento e fallocrate, da subito connotato come tale in una dozzinale attribuzione di caratteri.




Non contento della sequenza di luoghi comuni, che vorrebbero essere oggetto di strali alla maniera del Dogma ed invece confezionano il film senza mai raggiungere lo stato di distacco dalla società, introduce la triste storia della madre suicida e della sua influenza sullo sfascio della famiglia, demone contro il quale tutto il Dogma si muove, talvolta (Idioterne) riuscendo a scalfirne le strutture, in altri casi ribadendo con decenni di ritardo stilemi avanguardistici (Festen), in questo caso invece facendone un quadro estremo, ripetuto in tutte le sue forme possibili (imbarazzante per ingenuità l'episodio del caffè bollente) ma poco incisivo, perché distratto da altri interessi, come la storiella d'amore tra la puttana e l'arrivista (macroscopicamente) o da dettagli evidenziati poco "realisticamente" come lo specchio deformante, troppo evidente metafora dell'approccio errato alla realtà, o la favola del gratta e vinci, palese presa in giro dell'immaginario televisivo del mondo globalizzato, oppure il comitato di puttane che decreta che gli uomini "sono tutti pervertiti", o ancora l'aderenza di Liva con un fumetto amato da Rud. Soprattutto in quest'ultimo caso sorge il dubbio che quanto viene perseguito dai dogmatici non sia tanto lo studio della trasformazione dei caratteri di chi partecipa al gioco come sembrava in Idioterne, quanto la simulazione e dunque prendendo in giro gli spettatori ai quali si fa credere di volersi affrancare da qualsiasi falsificazione comunicativa.


L’uso di una sintassi semplificata accentua stranamente la sensazione di assistere ad una vicenda complessa, cosa che almeno nel dogma francese era evitata, e paradossalmente la presenza di un plot ben più congegnato rispetto agli episodi precedenti banalizza il racconto e riduce l’interesse del film.

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