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Madre e Figlio
Anno: 1997
Regista: Alexandr Sokurov;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Russia;
Data inserimento nel database: 19-07-1998


Madre e Figlio di Alexandr Sokurov
Madre e Figlio

Regia: Alexandr Sokurov
Assistente alla regia: Marina Koreneva
Sceneggiatura: Yuri Arabov
Fotografia: Alexei Fyodorov
Scenografia: Vera Zelinskaya, Esther Ritterbusch
Suono: Martin Steyer, Vladimir Persov
Musica: Mikhail Glinka, Otmar Nussio, Giuseppe Verdi
Montaggio: Leda Semyonova
Interpreti: Gudrun Geyer, Alexei Ananishnov
Produttore esecutivo: Katrin Schlösser, Martin Hagelmann,
Alexandr Golutva

Produzione: Zero Film, Berlin
Formato: 35 mm.
Durata: 75'
Provenienza: Russia
Anno: 1997
Premio C.I.C.A.E. al Festival di Berlino 1997



    Nella penombra slavata di un casolare isolato si intersecano i racconti dell´incubo di una madre morente con il sogno del figlio, la cui pietas permette il formarsi di una nicchia di calore famigliare, un´intimità che solo quel legame consente. Ammirevole l´assenza di retorica grazie alla perfetta calibrazione dei tempi (è tuttavia una poesia da gustare da riposati) nella assoluta, e pregevolissima, monotonia della fotografia brunita di Fyodorov, dominata da cromatismi opachi sui toni del marrone e del verde oliva, con deformazioni legate all´uso di ottiche che deformano in ogni direzione, restituendo il titanismo del Wanderer Above the Sea of Fog, (olio su tela del 1818 di Friedrich), ed anche di accorgimenti che sfocano i bordi del fotogramma (vaselina in corrispondenza dei margini dell´immagine?); le figure spesso si indovinano, il treno più che individuarlo nella pianura, si avverte nel suo lento attraversamento dell´inquadratura, si nota lo sbuffo del fumo. Il vapore si staglia sulla macchia di alberi verde cupo, indistinta per l´enorme bolla di sentimenti strabocchevoli, che tutto comprende e uniforma nella percezione mediata attraverso la pellicola di umore, trasparente membrana di lacrime attraverso la quale si partecipa alla morte della madre.

    Quella madre è anche metafora nella tradizione russa della Patria, ma qui per noi connota tutte le mamme assistite dalla solerte assiduità di un figlio fatalmente preparato all´evento, eppure da questo travolto, come in un sogno che lo coinvolge, vissuto in un flou spersonalizzante, che rimanda sempre alla nostra appartenenza alla Natura e a lei fa carico di una situazione troppo grande per essere sostenibile senza la rassicurante contemplazione romantica e l´immersione nell´infinitamente grande, reso partecipe di un´assenza enorme per un essere piccolo come l´uomo. Il sublime kantiano traspare in ogni taglio, selezionato in modo originale; la figura umana, quando non occupa l´intero schermo ritaglia per sé una piccola porzione di spazio, il resto è occupato dal vento, che increspa onde di erba, da raggi di sole a mosaico nella foresta, nubi scure occludono ogni sbocco verso l´alto, soffocando plumbee l´animo presago del dramma incombente.

      Tutto ha un aspetto incantato e lieve è la tristezza che promana dall´abbandono dei luoghi deserti, perché i gesti premurosi sono caratterizzati dalla lentezza, che non è mai sorella della noia, ma piuttosto serve a non spezzare l´intimità e la solennità semplice e naturale degli ultimi atti insieme: la lirica termina con il figlio, che, rivolto allo spirito della madre (convinto della possibilità di comunicare con i defunti), l´invita ad attenderlo. Banale, ma in questo contesto credibile, efficace in un ambito in cui tutti i dialoghi sono prevedibili, ma noi che vi assistiamo non dobbiamo aspettarci altra essenzialità: l´intensità non proviene dai soliti mezzi spettacolari, ma la scuola Tarkovskijana emerge dalla breve sequenza dell´evocazione sulla base dell´album di lettere e fotografie, consultato sulla panchina nel giardino, su cui il figlio adagia la madre e poi, in tempo reale il piano sequenza dà tempo allo spettatore di accettare come credibile l´assopimento della malata, rientra a recuperare il materiale che offre la possibilità di rievocare: dell´autore de Lo Specchio riappaiono la saturazione materica del colore, i timbri che i primi piani dilatati dal tempo imprimono su lunghe osservazioni della stessa natura ripresa da Sharuna Bartas in Lontano da Dio e dagli uomini (evidentemente evocata la sua pietraia nella sequenza senza cielo e con il solo nastro di un sentiero che taglia l´immagine in due con i due dolenti viandanti nella parte alta dell´inquadratura: destabilizzante). Le medesime inclinazioni dell´immagine sono volte ad agevolare uno sguardo lievemente obliquo su eventi naturali che ci segnano come la morte, benché annunciata. È la messa in scena della nostra incapacità di accettarla anche mettendo in campo tutte le elaborazioni di lutto che la cultura ci offre.

    Il senso di dormiveglia promanato dalla slavatezza dell´immagine duplicata dallo stato della moribonda spossata dalla vita che le sfugge, si attaglia all´afflusso di ricordi che si accumulano come a voler riempire di vita gli estremi momenti, ma trattandosi di ricordi sono ormai sfuggenti tra le dita inerti, immobilizzate dall´incombenza della morte.

    La spiritualità russa privilegia dolore e sacrificio, quindi coglie la presenza del divino nelle sue manifestazioni meno gaie : ¨Non c´è nessuno lassù in cielo¨, ¨Eppure qualcuno mi ha ferito¨. Gli stessi toni cupi delle tele di Caspar David Friedrich (già riferimento obbligato per Ridley Scott ne I Duellanti): l´uonmo piccolo oppresso da un presentimento contenuto in quelle nubi minacciose che sovrastano alberi indistinti lontani o sentieri che si inerpicano con inclinazioni innaturali tra misteriosi cespugli di dimensioni incomprensibili; un mistero la cui soluzione è racchiusa nella consapevolezza di morte che ognuno contiene in sé e che si sprigiona al cospetto del mare, contemplato in distanza (come in Kreidefelsen auf Rugen di Friedrich) mentre è solcato da una simbolica vela, che consente alle lacrime di sgorgare, poiché dà la certezza dell´avvenuto trapasso, concludendo in un anello la paura infantile confessata nel campo: ¨Da piccolo credevo che non saresti mai tornata da scuola¨. Ora la madre, irraggiungibile come la barca, non tornerà più.

    In tutto il film è difficile cogliere i passaggi tra le sequenze in assenza di azioni rimarchevoli: tutto è affidato a stati d´animo uniformi come tipologia, ma di diversa intensità. È quest´ultima che permette di avvertire le sfumature attraverso cui passano i due unici abitanti di un pianeta abbandonato: non è un caso che il momento di maggiore tregua dal dolore e di massima pace si assapori nell´unica occasione in cui la madre è in piedi, benché apoggiata ad una betulla (ricordate Wajda e il sollievo che rappresentano questi alberi nell´est europeo); ebbene si giunge a questo istante attraverso un impercettibile cambio di sequenza: un istante di grazia nella passeggiata durante la quale il figlio porta in braccio la donna in uno scambio di ruoli commovente. In questo frangente si interrompe brevemente la contemplazione/commiato dal mondo e si apre uno spiraglio di vita per bearsi realmente ancora una volta della luce naturale (unico momento di luminosità ¨reale¨).

    Tutto il film si dipana su tre quinte di piani: quello ravvicinato è quasi sempre ingombro in esterno da elementi naturali un po´ sfuocati, fissi nella loro insondabile e solenne eternità indifferente, lo sfondo invece contempla ritagli di spazi significanti e interagenti con l´animo dei due attori, che occupano l´ambito intermedio e ne sono conglobati, come se abitassero una terra di nessuno tra la vita e la morte, compresa in interno tra le braci ancora rosse nel camino e l´albero in fiore al di là della finestra ritagliata sullo sfondo (ancora Friedrich, View from an open window), riproposizione della suddivisione in piani anche degli interni, parallela all´impianto fotografico degli esterni.

    A questo punto si dipana un altro dialogo, che non è banale enunciazione di ¨paura della morte¨, ma racchiude un universo di partecipazione attraverso la pratica rituale della rassicurazione che qui scaturisce in una delle frasi più dirette e autentiche: ¨Provo una pena infinita per te¨, dice la madre dolce e suadente, mentre enuncia la consapevolezza di una terribile condanna della condizione umana: ¨Perché anche se non vuoi, devi sopportare il mio dolore e questo non è giusto¨. Ciò fa la differenza tra una morte dignitosa e lo squallido sopraggiungere della fine della vita; infatti il regista preferisce mandare fuori il giovane e lasciare che la madre affronti da sola l´estremo valico.

    Quando torna il lutto è stato elaborato al cospetto del mare con un impercettibile nenia ad accompagnare il pianto, quasi una ninna nanna che cull l´orfano, così al rientro non c´è bisogno di altro che una grinzosa mano inerte, abbandonata sul letto con una farfalla abbarbicata all´anulare, unica garbata metafora di effimericità della vita che sfugge, perché immediatamente lo spettatore abbia la percezione che quella inquadratura riassume il nulla post mortem.