Les rivières pourpres I
fiumi di porpora
Regia: Mathieu Kassovitz
Sceneggiatura: Mathieu Kassovitz, Jean-Christophe Grangé
Fotografia: Thierry Arbogast
Produzione: Alain Goldman, Catherine Morisse
Interpreti: Jean Reno, Vincent Cassel, Nadia Fares, Dominique Sanda
Origine: Francia, 2000, 105 min.
$align="left"; include "image1.php3"; ?>Qualche volta lo stile
cinematografico, le caratteristiche estetico formali del film possono superare
di molto l’esposizione dei temi. Vecchia contrapposizione tra forma e
contenuto. Nel caso di I fiumi di porpora la contrapposizione è
fortissima. E naturalmente la contesa è destinata a rovinare le sorti del film,
per il quale il giudizio soggettivo di merito non può che essere negativo. Ma
le nostre analisi, per onestà intellettuale, cercano di prescindere dal
giudizio. Mi torna in mente un contributo di Luca Bandirali sull’etica. La
distinzione precisa tra etica eteronoma ed etica autonoma dei significanti
filmici. Quando il significante è legato a scelte eteronome di sceneggiatura i
nodi vengono al pettine.
Kassovitz, chissà forse per accontentare Grangé che è poi anche l’autore del
romanzo Les rivières pourpres da cui è stato tratto il film, ostenta,
soprattutto nella seconda parte, inutili cautele, stupide preoccupazioni, che
riguardano i dettagli del thriller. Errore doppio perché nell’epilogo, a causa
della confusione dell’intreccio, pervaso dai più banali e trascurabili
elementi, risulta impossibile comprendere alcunché, nonostante ci si trovi di
fronte a un finale “spiegato” e chiuso, tutt’altro che una conclusione aperta.
C’è allora una scena che mostra perfettamente il “degrado”
dell’immagine, che, permettete questa metafora, si sacrifica alle ragioni
falsamente più forti della Storia (nel senso di istanza dominante del cinema
narrativo). L’assassino misterioso, avvolto in un impermeabile stile So cosa
hai fatto l’estate scorsa, dopo aver graziato Reno, sfugge a Cassel dopo un
vano e bellissimo inseguimento. Qualche istante più avanti vediamo inquadrata
la protagonista femminile, Nadia Fares, con la stessa distorsione della luce.
Si tratta della medesima immagine-percezione di Reno. A questo punto il colpevole
è bello e smascherato. Tale immagine è anche il sintomo della crisi
immaginativa del film.
Proviamo a confrontare le due sequenze aeree che aprono e
chiudono il film. La prima è uno sguardo dall’alto sui luoghi del delitto: un uomo
è stato orrendamente ucciso e mutilato e conficcato in una nicchia rocciosa
pressoché irraggiungibile. Questa ripresa comunica l’ansia del mistero dei
luoghi, delle imbiancate montagne alpine che custodiscono un atroce segreto che
sta per essere penetrato dai due detective. La sequenza finale è invece
assolutamente pleonastica: non comunica un bel niente, soltanto il panorama
sulla distesa bianca dove giace la coppia protagonista. Cosicché il film
procede verso l’inevitabile smorzarsi della tensione. Caso questo del tutto
insostenibile per un thriller.
Forse ha detto bene Erwan Higuinen dei Cahiers du Cinema
(numero di ottobre 2000): “Ne I fiumi di porpora i contrari coabitano,
si affrontano senza mai cessare. Non c’è una conciliazione possibile”.
Bisogna allora cercare di vedere, di separare le immagini per lasciare che
acquistino singolarmente una pregnanza rilevante. Così sono alcuni flash, lampi
fulminei che risultano indimenticabili, quadri impressionisti in cui le virtù
di messa in scena sono potenti e indiscutibili.
Come la vista del cadavere mutilato sul quale la mdp ci spinge da tutti i lati,
e la breve ma intensissima corsa di Cassel per acciuffare l’assassino, che ha
il gusto di una sequenza fantastica e paranormale. Ed il modo di filmare i luoghi,
soprattutto gli interni claustrofobici dell’università, la biblioteca e lo
studio dell’oculista. E i percorsi oscuri e ignoti nel ventre cunicolare della
montagna.