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Le Cri du coeur
Anno: 1994
Regista: Idrissa Ouedraogo;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Burkina Faso;
Data inserimento nel database: 18-03-2001


Le Cri du coeur

Le Cri du coeur



 



Regia:  OUEDRAOGO, Idrissa

Sceneggiatura:  OUEDRAOGO, Idrissa / GARDNER, Robert / AKCHOTI, Jacques

Fotografia:  MONSIGNY, Jean / MEURISSE, Jean-Paul

Montaggio:  BARNIER, Luc

Musica:  TEXIER, Henri

Suono:  HENNEQUIN, Dominique

CAST

BOHRINGER, Richard   ..........Paulo
DIARRA saïd   ...........Moctar
DESCAS, Alex   ..........Ibrahim Sow
WOUASSI, Félicité   ..........Saffi
CELARIE, Clémentine   ........Déborah
GAUTIER, Jean-Yves   ........Paul Guérin
DOUKOURE, Cheik   ........Mamadou
FABET, Ginette   ........Fatou
KOUYATE, Adam   ........il nonno

Produzione: Les Films de l'Avenir (Burkina Faso) / Les Films de la Plaine (France) / Centre Européen Cinématographique Rhône-Alpes (France)
Durata: 86'
Anno: 1994
Nazione: Burkina Faso, Francia

Distribuzione: Coe

"Forse è vero che il mondo, così com'è, non è un'allucinazione, l'incubo di una notte. Può succedere che ci svegliamo per ritrovarlo inevitabilmente, che non sia possibile dimenticarlo e neppure farne a meno"

j. m . coetzee, Aspettando i barbari, Einaudi, p.178

 

Prendiamo una prospettiva amplissima. Il mondo visto da fuori, il pianeta intendo come nei film di SF. Ci avviciniamo e gradualmente si cominciano a individuare i continenti, alcuni corsi dei fiumi. Manchiamo l'atterraggio nei luoghi a noi più familiari, quelli delle nostre radici e la carrellata si fa veolocissima, spostando il nostro sguardo su superfici che si rincorrono, allontanandoci da quel mondo in cui abbiamo imparato a organizzare la nostra vita. Immaginate il panico della mancanza dei riferimenti più elementari preceduto dalla sensazione di vertiginoso allontanamento, di fuga del proprio mondo sotto i nostri stessi occhi. È quanto avviene a Moctar in quella corriera che vediamo sparire all'orizzonte in un totale che si contrappone al primo piano del nonno, inquietante a tutto schermo, come se Ouedraogo volesse imprimere l'immagine del volto di terracotta del nonno lungo tutto il film; un'estrema labile immagine dell'Africa in trasparenza su tutto il resto. Ed è con quella che s'inizia e termina il brevissimo inserto ambientato in Mali, che nella sua brevità ha la stessa portata di quella vertiginosa caduta sulla terra alla fine della quale finiamo catapultati in una grossa città europea del nord. Ogni manifestazione è ostile, anche la prassi più quotidiana appare con sfumature che la rendono infida. Le cadute nella nostalgia vanno rintuzzate: non si sopravvive abbracciando lo sconforto che ci piomberebbe nel solipsismo, perché quella esperienza dello sradicamento è unica e incondivisibile.
L'uomo si adatta facendo violenza alla sua natura e quindi accetta tutto, affronta ogni contrarietà, nasconde lo sconforto. Ma sarà l'atteggiamento giusto? Non rimarrà qualcosa che dal profondo repentinamente emerge, come un conato di vomito incontrollabile e si manifesta, inchiodandoci alla nostra abitudine, ai nostri affetti, ai nostri bisogni? Alle nostre angosce di perderci.

 

«L'uomo è libero, può fare tutto», dice il nonno di Moctar, il ragazzino di Le cri du coeur, dunque l'uomo può passare oltre lo sconforto che aggredisce i visceri al rientro in una casa vuota che non è la sua e a testa bassa inseguire un destino fallace. Però viene messo di fronte al suo destino vero, quello che transitava su un'altra strada che non si è imboccata, o che è stata occultata, e che saltuariamente lo incrocia e occhieggia: ognuno la sua. Infatti il padre di Moctar è il primo personaggio inquadrato a Lyon, mentre imbuca la lettera con la quale richiama la famiglia in Francia ed il suo animale è l'aquila che vola con uno dei rari momenti di poesia che coinvolgono la figura del padre, simboleggiando il trasporto della lettera attraverso una presenza ferina, utile a introdurci in territorio africano, ma anche a mediare l'uso dei simboli comuni agli africani, per recuperare quell'identità che si comincia ad alienare nel momento in cui si subisce un trasferimento presso una cultura diversa. Per spiegare da dove viene quella presenza oscura: la iena che sta già lavorando nel momento in cui Moctar alla notizia della partenza si volge verso gli amici, quegli affetti estirpati con un'operazione traumatica, preparata dall'essenzialità tecnica di Ouedraogo in modo mirabile: la sequenza è millimetrica a partire da quella buca delle lettere a Lyon si stacca sul volo dell'aquila, raggiunge il villaggio e l'uccello è sostituito dal postino attorno al quale si crea un altro movimento avvolgente, che ripropone un moto africano, che non ha corrispondenti in occidente: il cerchio di persone attorno alle notizie orali; la lettera attira su di sé l'attenzione e poi la notizia esplode il cerchio raggiungendo il ragazzino in una soggettiva che ci colpisce per quanto è una retta centrifuga da quel cerchio creatosi dai movimenti circolari della macchina. E Moctar, volgendo lo sguardo già con nostalgia, nasconde - a noi e alla madre (e forse a se stesso) - i suoi veri sentimenti. Quegli stessi che, attraverso il nonno, danno vita alla iena.

Da qui, da Coventry, città-verbo per identificare la distruzione totale, dove sono stato precipitato dall'insensatezza del mondo post-industriale, capisco gli africani che non vogliono assistere ai film provenienti dalla loro terra, proiettati in Europa. Lo strazio di trovarsi in un'insensata rete di strade inventate da una serie di architetti strutturalisti, inumano moloch che divide i percorsi, anziché riunire gli itinerari, li confonde e vedere i luoghi sognati ogni notte, irraggiungibili; la consapevolezza di aver rotto tutti i ponti dietro le spalle e non potere più tornare come si era prima, africani; il panico di essere sopraffatti dall'onda di amara distanza che ti lascia senza fiato e senza lacrime, esanime di fronte al vuoto di una camera squallida, inospitale. Sono tutte sensazioni che è atroce provare e una volta esperite, si fa di tutto per non replicarle, ci si aggrappa ad ogni dettaglio per dare un senso, si cerca persino un'improbabile - e impossibile - comunanza con quelli che condividono spazi e situazioni, accomunati da mansioni o classi scolastiche comuni. Inutilmente: la iena crea il vuoto intorno e la differenza spande immediata diffidenza ("gli africani hanno gli amuleti", afferma una ragazzina appena Moctar entra in classe) o comunque offre i presupposti per tradimenti (il compagno che rivela le sue allucinazioni). Quanto il disagio derivante dalla iena sia una difesa interiore contro una situazione imposta dall'esterno (in particolare potrebbe essere una versione africana dell'edipo freudiano, come d'altronde è esplicitato in Bye bye Africa)) è provato dal fatto che la prima apparizione avviene mentre i genitori si appartano in officina (bella la scena del ballo tra gli attrezzi da lavoro) e la seconda manifestazione dell'emblematica fiera capita dopo aver indugiato sulla foto del nonno.

Siamo in pieno territorio africano, anche se l'intero plot si svolge a Lyon (ma io immagino che sia Coventry) a e Ibrahim, il padre, ormai ragiona seguendo parametri francesi, inoltre la presenza di Bohringer denuncia con evidenza la collocazione - anche spostando troppo l'equilibrio del film su questa storia parallela del legame tra Moctar e il francese, che fa il mago e giocoliere, quindi è quasi un'espressione di mezzo tra il mondo di Moctar e la cultura francese - tuttavia siamo in quel limbo dove i vezzi europei vengono punteggiati da incursioni discrete, magari soffocate, nel mondo africano: l'apice di questo si incontra durante la visita presso i conoscenti, gli amici che da più tempo sono immigrati. In particolare il racconto della morte di un compaesano tra le fauci di un coccodrillo dischiude un mondo e anche un atteggiamento verso la morte ("Karim era guercio e il coccodrillo astutissimo si è avvicinato dalla parte da cui lui non poteva vederlo", commenta Kamadou alla notizia della morte dell'amico) lontanissimo dallo spirito transalpino. "Non ci sono iene in Francia", appunto.

Non altri, ma i marginali, possono entrare in contatto con l'immaginario che dà vita alla iena, neppure Ibrahim può capirlo: lui ha operato una cancellazione sistematica di tutta la sua africanità, l'ha annullata nell'officina, anche la sua paternità è occidentale (vuole il figlio dottore, il primo del villaggio). Invece Bohringer e la sua compagna vivono ai margini, lungo una ferrovia e possono capire il ragazzino sradicato, anche perché il mago porta con sé una paura lancinante, che lo prostra ogni volta che se ne ripropone il ricordo: da camionista ha travolto un ragazzo. Anche in questo caso l'autore mira a rendere partecipi gli spettatori attraverso la condivisione del panico, evocando una qualche possibilità di capire tramite la propria esperienza di un'angoscia.

Ma Mamma Africa può aiutare: può superare il terrore che attanaglia di fronte ad un mondo sconosciuto da affrontare impreparati ("Meno conosci le cose e più ti fanno paura"), ma il ragazzino è angosciato, disperato, non sa come giudicare la iena e di fronte alle parole rincuoranti della madre ("Non è il caso di averne paura") sfodera le certezze del nonno, i parametri dell'Africa che innescano un desiderio di cancellazione parallelo a quello del padre - altrettanto carico di certezze inopinabili -, ma l'alienazione di sé non riesce grazie al ricordo del nonno ("Il nonno mi ha detto che la iena è pericolosa e porta alla morte") si innesca un conflitto insormontabile con gli occhi del nonno, che vanno superati, adattati, ma non dimenticati, accantonando la sofferenza derivante dalla iena, emanazione del dubbio che non ha sfiorato Ibrahim, impegnato a crearsi una posizione e dunque capace attraverso quell'ossessione di soffocare il grido dell'Africa, nascondendo la sua iena, quello stesso animale che fu protagonista di una serie di Mambety.

La soluzione prospettata è un compromesso tra il mondo onirico e la realtà, tipico della letteratura orale dell'Africa e che si ritrova ad esempio in Terra sonnambula di Mia Couto: la determinazione del ragazzo nell'affrontare i propri mostri fa sì che riesce a intrappolare nella realtà la iena uscita dall'immaginazione e poco importa che a quel punto riesca a fuggire. Ormai fa ancora paura, ma non è più un arcano; ancora di più svelato dalla visione del nonno, che preannuncia a distanza la sua morte attraverso gli stessi percorsi dai quali è fuoruscita la iena.