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Latcho Drom
Anno: 1993
Regista: Tony Gatlif;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 28-02-1999


Latcho Drom


Poeticamente interessante è la scelta di recuperare la leggenda inventata dal popolo nomade per spiegarsi la propria dispersione: un carretto traballante appare nel deserto proveniente dall'India e nei sobbalzi lascia cadere masserizie e ragazzini, che sparpagliati ai bordi della strada inaugurano nuove comunità; allo stesso modo in questo musical, che non è documentario né racconta una fiction, si ripercorrono i luoghi toccati dagli zingari nei loro vagabondaggi non usando altro che i loro volti, i corpi perennemente agitati dal ritmo della danza e soprattutto la musica struggente ("Brucio il mio oroscopo che mi ha esiliato lontano da chi amo" è tra le prime strofe della canzone tradizionale che inaugura questo lavoro di fine antropologia), passionale, frenetica, dolcemente sofferente. Tramite questa si filtrano tutti gli umori e si setacciano le tracce che le terre attraversate hanno depositato nell'animo delle comunità erranti: ipnotico è l'inizio in Oriente, dove già si denota l'impianto del film che propone sempre un motivo filologico connotato dalla quotidianità dei lavori artigianali e dei rumori che diventano muzijka e gradualmente si confondono con l'esecuzione del brano, illustrato spesso da feste in cui risulta sempre chiaramente riconoscibile la zona del mondo che in quel frangente assiste al transito della carovana degli uomini liberi; l'uso del dettaglio per evidenziare la semplicità di vita simboleggiandola con oggetti, materiali e attrezzi primari trova un simmetrico dosaggio nelle inquadrature che isolano acqua, pane, fuoco per battere il ferro, per scaldarsi e per accendere tabacco da un lato e dall'altro fuggevoli insistenze sugli strumenti tradizionali, preparando le melodie che si scatenano dal connubio tra questi due elementi … e dal sapiente uso dei cromatismi che trascolorano dal giallo intenso del deserto del Gobi agli infuocati arancioni che incoronano la sinuosa ragazza orientale, adornata di mille collane e pendagli come l'albero attorno al quale si svolge la festa rituale, al rosso delle corna di un bue, fino ai blu in cui si immerge l'incontro annuale a Saint Marie de la Mer, in Provenza introdotto da un pezzo di splendido jazz alla Django Reinhardt, passando dal marrone cupo del Bosforo, rivitalizzato dal giallo ocra delle strade (e dei fiori) di Istanbul o al freddo grigio danubiano e al ghiaccio plumbeo di Auschwitz, che si contrappone alla solarità del flamenco andaluso con il richiamo alla lunga convivenza di cultura iberica e tradizione nomade conclusa dalla persecuzione di Isabella, evocata nel film. Mai comunque il film scivola nell'amarezza auto-compiaciuta: sempre pronto a ripartire verso una nuova avventura etno-musicale.

Il percorso non propone cartelli esplicativi, ma sempre si trovano sparpagliati indizi, talvolta poetici come la luna nel paese della mezzaluna ripresa con intenzione o una più esplicita scatola di fiammiferi effigiata con il volto di Vaclav Havel, la Romania è quella di Gadjo Dilo

Molteplici sono i legami con film in distribuzione nelle sale: lo struggente suono del violino suonato senza archetto in Romania non può che rievocare la stessa sequenza inserita in Train de vie, lasciandoci incantati come il ragazzino unico spettatore della esecuzione in riva al delta del Danubio; mentre gli alberi popolati dall'intera comunità appesa alle passerelle legate agli alberi attingono allo stesso immaginario di Kusturica, che lega ai tronchi la band che suona in Gatto nero, gatto bianco; la grazia e il tripudio di colori della prima parte orientale richiamano da vicino l'attenzione cromatica di Il Silenzio di Makhmalbaf. Nessuna terra è privilegiata, ma la Romania ha i toni più accorati: sia nella denuncia delle persecuzioni di Ceausescu ("Il tempo di vivere in libertà è venuto" illustrato da un giovane su un cavallo bianco e da padre e figlio, soli, che mangiano del pane nel freddo della Piazza di Bucarest), sia nella uscita in istrada da case diverse dei musicisti che vanno a confluire in un'unica festa, che esprime il gusto di fare musica tutti insieme. Sul treno che marca il transito in Occidente si avverte la tristezza della considerazione che la nostra società ha riservato agli zingari: "Il mondo intero ci odia e ci ha reso maledetti" segna il contatto con il nostro mondo simboleggiato da steccati e filo spinato.

I gesti rituali sono eseguiti con estrema spontaneità e ciò che interessa trasmettere è l'enorme disponibilità ad entrare in contatto con tutti, assorbire ogni condizionamento culturale senza mai snaturare la propria condizione di uomini liberi e offrire la carica di vitalità custodita nel cuore della bollente musica tzigana per strappare un sorriso; poetico a questo proposito l'episodio della madre malinconica al bordo di un binario, il cui bambino gadjo spontaneamente chiede a passi di danza che il gruppo di zingari si adoperi a tirare su il morale alla donna. I nomadi rifiutano gli spiccioli offerti dal ragazzino e ottengono il risultato di scuotere la donna dal suo torpore.

Il regista sembra ascrivere all'emulazione e riproposizione dei suoni ascoltati la naturalezza con cui ogni situazione si trasforma in musica, fino a scatenare un processo di emulazione e ripetizione infinito (il primo di questi esempi è nell'episodio ambientato in Egitto, dove i tre ragazzini sbirciano una festa locale e in tempo reale la bambina danza con la stessa grazia della ballerina ed il giovane musicista adatta impareggiabilmente la musica al suo strumento sull'albero dove è appollaiato), che è il germe della tradizione e della riconoscibilità delle armonie musicali tzigane e contemporaneamente esprime in questo modo il paradosso secondo il quale a fronte del bisogno di mantenersi ai margini dei consessi culturali che attraversano, i nomadi finiscono con il custodire l'anima delle creazioni musicali di ogni singolo popolo con cui vengono in contatto grazie alla versatilità di apprendimento e alla disposizione a contaminare il proprio patrimonio linguistico con le scoperte fatte durante i loro spostamenti (il film si intitola non a caso Buon Viaggio); non si tratta di copiature, ma di adattarsi ai luoghi che ospitano la storia degli zingari attraverso la costante duplicazione infinita dei ritmi ascoltati da questi depositari della memoria di ciò che potremmo essere se non appartenessimo al mondo tecnologicamente avanzato.