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La Saison des hommes
Anno: 2001
Regista: Moufida Tlatli;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Tunisia;
Data inserimento nel database: 23-03-2001


La Saison des hommes
Visto all'12 festival internazionale del cinema africano - Milano

La Saison des hommes

 



Un basso continuo: "Mi fa male tutto il corpo", perché la privazione di diritti, la sottomissione, l'assenza di affetti e l'insoddisfazione di appetiti, si manifesta fisicamente in malesseri che arrivano al disturbo psichico del bambino, Aziz.

 

Universo femminile, un gineceo come Le Silence du palais (Shamt al kushur), e come nel film precedente gli incastri tra presente fatto di spunti per rievocare e passato in cui immergersi alla ricerca delle radici di cosa ha portato quelle donne a riconoscere la condizione di segregazione, ripercorrendo tutti i traumi e le vessazioni di una schizofrenica situazione di sudditanza nei confronti degli uomini addirittura in loro assenza, poiché i maschi sono emigrati per undici mesi all'anno. L'assunto su cui si costruisce il film è lo stesso che il finale di Badîs spiega così bene con la fredda determinazione con cui la vecchia donna scaglia la prima pietra della lapidazione delle due ree del reato di ribellione: la tradizione è tutelata dalla sorveglianza che le donne stesse applicano in assenza dei loro figli, mariti, padri. Infatti anche nel caso del film di Moufida Tlatli molta parte della ricostruzione si fonda sul confronto tra la suocera-zia e la giovane, la prima si avvale della delega del maschio padrone per legittimare la propria autorità: "Devi spiegarle che finché sono viva comando io". In realtà come in tutti i frangenti in cui si esercita una supremazia è un esercizio di un potere che restituisce le angherie subite dalla generazione precedente.

L'altro perno su cui ruota l'intreccio è la resa; Aïcha torna a Djerba dopo l'enorme sforzo fatto per affrancarsi dall'autorità raggiungendo il marito a Tunisi ed è costretta proprio dalla difesa del bambino che tanto aveva voluto il marito e il cui disturbo psichico sembra condensare il disagio degli uomini di fronte ai cambiamenti, ai ribaltamenti: addirittura emblematica è l'ultima inquadratura nella quale il bambino si sostituisce alle donne al telaio, ripreso attraverso le corde tese esattamente come ci era stata presentata la madre all'inizio. A quel telaio al cui montaggio aveva assistito nelle prime inquadrature della Djerba odierna.
Interessante come in due paesi così distanti tra loro e in produzioni così diverse si ritrova lo stesso oggetto (e quasi le stesse inquadrature e suggestioni acquisite dalla frapposizione della tela tra mdp e soggetto) come elemento narrativo centrale che ripercorre le epoche che passano su due luoghi lasciandoli invariati: il film di Yimou pone al centro dell'inquadratura il telaio esattamente come Tlatli lo usa per intrecciare il passato al presente ed in entrambi i casi è essenziale il trascorrere da un periodo all'altro. A questo proposito è prezioso un intero sogno, che si potrebbe persino isolare e proiettare autonomamente se ogni singolo episodio non avesse legami rizomatici con tutto il resto: il sogno racchiude un intero itinerario a ritroso scatenato dalla pratica onirica che unisce formalmente le due ragazze piccole e si svela come sogno di realtà: la nascita di Aziz, il bimbo psicolabile.

L'attenzione alle ripetizioni delle inquadrature in momenti diversi č maniacale e dosata correttamente consente di sostenere quella struttura di intrecci temporali, dando un supporto formale agli innumerevoli consolidati gesti rimasti invariati negli anni attraverso i quali si comprende quanto statico e imperturbabile sia il retaggio che blocca tutte le generazioni femminili considerate: ad esempio le due figlie sul traghetto si volgono verso sinistra con un gesto simultaneo che le accomuna e allo stesso modo nella sequenza successiva le stesse, da bambine, vengono colte nella stessa positura mentre si pongono di profilo ad osservare. Un'occupazione a cui spesso indulgono e la mdp indugia sovente sui loro volti attenti che assistono ad un mondo congelato dalla tradizione.

Guardano per giudicare, per evitare un destino così oppressivo e sviluppano reazioni traumatiche che provengono da quel passato nel quale la regista sceglie di penetrare nel modo più lineare, classico eppure incisivo: apre la porta della casa vuota da anni e dal buio che ne scaturisce si sbuca nel passato, come se fosse sempre rimasto al di là dell'uscio in attesa di trovare una soluzione, a dimostrazione che nulla è in realtà risolto. Anche se è sempre facilmente riconoscibile il momento ambientato nel passato dal presente diegetico, magari attraverso l'ordito di un tappeto che diventa trama, impianto per orientarsi, aiutato dall'attenzione ai dettagli su cui la mdp insiste quando ritiene sia opportuno attirare l'attenzione su un legame tra i due tempi apparentemente distanti, ma che l'assenza di differenze nei modi di ripresa rende omogenei: uno di questi momenti preparatori è il passaggio del braccialetto dalla nonna alla primogenita al momento della nascita che ritroviamo al braccio della giovane.

Un retaggio che condiziona la vita delle due figlie di Aïcha l'una, traumatizzata da un tentato stupro ai suoi danni tentato da un pedofilo, è frigida e non riesce a scopare con il marito (unico personaggio maschile positivo, che pazientemente l'attende e forse il finale lascia qualche speranza di cambiamento), l'altra, musicista, più decisa e ribelle, rifiuta qualunque proposta di creare una famiglia e frequenta il direttore d'orchestra sposato con il quale lavora.
Ciò che più ci disorienta è l'orizzonte di semplice attesa in cui sono infitte le donne, o meglio ancora i loro corpi, sospesi per undici mesi da qualunque desiderio, gli appetiti sessuali si concentrano in un unico mese, mentre per gli altri il languore sembra palpabile e si esprime nella memorabile sequenza in cui la giovane, abbandonata da anni da un marito conosciuto una sola notte e poi partito per non tornare mai più, raggiunge un doloroso orgasmo fatto di assenza e struggimento solo per le mani del medico che la visitano. Non ha nulla di comico la sequenza, quelle mani che scorrono sulla pelle nuda mai toccata da nessuno sembrano rivitalizzare le singole cellule di un corpo frustrato. Una costrizione che è comune a tutte, insostenibile al punto che per aggiungere ai tempi dilatati del racconto, utili per allungare l'attesa, l'esplicitazione dello stato di quelle donne si commenta: "La sua vita è un inferno, come la mia e la vostra".
Bella a questo proposito la sequenza del bagno di mare collettivo tra donne: a lungo la ripresa indugia su questo momento di serenità, anche in questo caso dunque passa attraverso il benessere dei corpi il messaggio, che è poi la preparazione per l'imminente arrivo degli uomini; la sequenza si caratterizza per un lento avvicinamento dell'obiettivo al gruppo di donne, gradualmente dall'alto ma progressivamente fino a che le donne sono inquadrate a pelo d'acqua, ravvicinate, come se anche la cinepresa si fosse immersa nel benefico rito.
Le due comunità non si sfiorano mai, non vivono nemmeno nello stesso paese: uomini e donne oltre l'apartheid, immersi in universi paralleli e a questa sequenza collettiva femminile nel mare si contrappone quella in cui il fratello di Aïcha, unico a non voler fuggire da Djerba, perché si sente smarrito quando lascia l'isola e dunque si scopre ancora più radicato, senza potersi neanche lui sottrarre al legame morboso, che imprigiona le vite. Egli non condivide la foga di andare via degli altri uomini, ma dà indicazioni per capire come mai fuggono: vogliono crescere in fretta. Appunto, vogliono lasciare l'atmosfera sonnolenta dell'isola per "liberarsi", costringendo le donne a fare la guardia al bidone, condannandole per generazioni.

Altra frase attorno alla quale gravita in parte lo spirito del film, costituito da molteplici poli di attrazione che informano intere sequenze costituite secondo un criterio ripetuto di affastellamenti successivi di immagini simili che si rimandano lungo l'intero intreccio incasellate in una struttura ribadita per ogni episodio, è: "Questa casa è morta". Un'asserzione così forte, è schockante ma va intesa come dichiarazione di intenti: la voglia di chiudere definitivamente con quel periodo irrisolto e dunque in realtà quella casa è tutt'altro che morta; anzi, ogni angolo, ciascuna screpolatura, tutti gli oggetti che riemergono e qualunque gesto abbia come sfondo quella casa diventa automaticamente un meccanismo che innesca il ricordo vivido. Diventa così difficile ammazzare quella casa, al punto che Tlatli ha già fatto due film per liberarsene e sottolinea in una battuta pronunciata in modo da rimanere sospesa a lungo sulla scena perché venga recepita come una condanna: "Seppellita viva", una consapevolezza disperata che si sfoga in un pianto tra le braccia della figlia, dando il via ad uno dei consueti virtuosistici passaggi da una situazione in un tempo ad una proiettata in un altro tramite elementi comuni alle due sequenze, che costellano il film: in questo caso l'elemento che fa dialogare le due sequenze è la presenza della figlia, ma la genialità linguistica si nasconde nel fatto che non si può non attribuire il retaggio di quella condanna alla condizione della figlia, che ripudia qualsiasi matrimonio ed è logorata dal condizionamento dell'isola nella attualità diegetica, conquistata dal montaggio sull'abbraccio. In quel finale degrada la presenza di Aïcha a favore di Enna, la figlia ribelle, individuandola come alter ego della regista e anche come destinataria della lunga rimeditazione sulla storia della madre a cui abbiamo assistito; si accentuano gli intrecci con il passato, ma il presente non è solo pretesto per richiamare episodi trascorsi nell'infanzia, diventa luogo dove si è trasportato il confronto tra corpo e desiderio femminile e simboli maschili che altre donne portano come vessilli: nello schiaffo ricevuto da adulta (risposta all'urlo: "Il tuo corpo è in lutto. È morto") si rivela in tutta la sua forza il confronto tra due diverse concezioni della femminilità condizionate dalla cultura in base all'età, più che gli uomini, sempre marginali, sono le donne a interpretare il proprio ruolo conflittualmente le une con le altre.

Per fortuna l'epilogo riassume una serie di situazioni ottimistiche, sembra pura speranza appiccicata alla fine, ma il corpo chiuso della donna che si è macerata nel suo abbandono che finalmente si apre alla scopata con l'uomo che non riesce a lasciare l'isola, l'apertura del corpo della figlia non più traumatizzata, il sorriso a cui si apre Merien subito prima dell'ultima scena, sono tutti episodi che instillano ottimismo e spalancano l'orizzonte chiuso e claustrofobico della casa lungo tutto il film.