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LA PETITE VENDEUSE DE SOLEIL
Anno: 1998
Regista: Djibril Diop Mambéty;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Senegal;
Data inserimento nel database: 24-03-1999


On Cultive le Fespaco

LA PETITE VENDEUSE DE SOLEIL

"On Cultive le Fespaco". Così si conclude il breve filmato proposto da TvZone, la rubrica di RaiDue con il quale si conclude l'omaggio tributato dal 9° Festival del cinema Africano a Djibril Diop Mambety, il leggendario regista senegalese scomparso a luglio; indirettamente gli organizzatori milanesi hanno in questo modo ribadito i legami con l'importante esperienza di Ouagadougu: il Fespaco, la rassegna più importante di cinema africano, voluta dal mitico Presidente Sankara. Nella sala del De Amicis di Milano e prima ancora al San Fedele si accendono le luci facendo sbiadire il volto del regista di Hyenes, intento ad arringare divertito un nugolo di ragazzini burkinabé quasi iterando le cantilene presenti nei suoi films; era il 27 febbraio 1997.

L'occasione è offerta dall'ultimo mediometraggio, mostrato in anteprima a Rotterdam: La Petite vendeuse de Soleil è il secondo episodio di una trilogia incompleta inaugurata con Le Franc, riproposto dal Coe in coda al film incentrato sulla ragazzina, che malgrado l'handicap fisico, dimostra una forza d'animo invidiabile. La proiezione dei due film conferma l'impressione che nelle ultime produzioni Mambety stesse rielaborando con mirabili sofisticazioni linguistiche le impressioni su Dakar, che campeggiavano nei primi film (Contras City e Badou boy in particolare), raffinando ulteriormente il lavoro sul sonoro, vero laboratorio da cui scaturisce la formalizzazione della realtà di Mambety. Infatti la costruzione dei suoi film è apparentemente adiacente alla realtà, ed in effetti sul piano puramente visivo ci vengono offerte immagini nitidissime, mentre le manipolazioni del sonoro introducono canti e litanie, un mondo visivamente sfuggente, nonostante il rigore a tratti documentaristico della fotografia adottata, la cui anima si nasconde, preferendo manifestarsi attraverso il sonoro, o è discrasica rispetto ai richiami alla preghiera e gli inviti agli acquisti, gridati al mercato, per esplodere poi nei momenti d'intensa creazione artistica evidenziata dagli interventi linguistici. Il mercato in particolare è reso personaggio unico proprio dalla bolla sonora che ci investe uniforme, fatta di suoni e rumori di cui spesso non viene mostrata la fonte, pur conferendo lo stesso spessore di immagini dettagliatissime e drammatiche alla descrizione della situazione. Infatti il mercato ci viene incontro, rivelato prima dai suoni e poi dallo sguardo della varia corte dei miracoli che anima il film, arrancando dietro al ritardo che affligge la banda visiva rispetto alla banda sonora, sempre autonoma e arricchita dalle infinite pieghe dei filtri che si frappongono tra l'emissione e le molteplici altre fonti foniche, ottundendone alcune, privilegiandone altre a turno o finalmente esaltando silenzi assordanti: da antologia del cinema quello che segue la toccante sequenza di assoluta e indiscutibile solidarietà, durante la quale la bambina divide tra tutti i mendicanti e i poveri venditori i diecimila franchi ricevuti. Inopinatamente queste dissonanze del percorso parallelo tra foné e inquadrature si intrecciano improvvisamente su una donna, ad esempio la nonna di "Soleil", cieca profetessa anticipata in Parlon Grand Mère, che intona una salmodia imperturbabile e religiosamente indisturbata dalla varia umanità che fa da coro visivo al dolente canto.

Il racconto si dipana con carrellate sui volti, che fanno da quinte sceniche a Dakar e alle vicende della ragazzina, dei suoi infelici amici e del suo protettore: la loro condizione li rende interessante metafora della condizione dell'Africa e della fierezza dei suoi abitanti. Per altro verso la narrazione dell'universo intimo della venditrice è cadenzato da improvvise accelerazioni che portano a tappe significanti per il loro repentino abbattersi sul lento e faticoso deambulare sgraziato eppure armonioso al punto da dedicare una grottesca e aggraziata danza.

La denuncia dell'atmosfera di sospetto instaurata da autorità poliziesche ottuse si avverte fin dalla sorte della ragazza che fa da prologo: una giovane donna è accusata del furto di un secchio, la persecuzione è resa più terribile soprattutto dalla panoramica che quasi distrattamente (ma questa è proprio la forza del suo cinema da sempre oltre il neorealismo e memore dell'esperienza della nouvelle vague) il regista inserisce a perlustrare il crocchio di persone attirate dalla situazione: nessuno interviene, anzi molti ridono divertiti; per converso appare l'amico Juke box ambulante, disgustato: un ragazzino senza gambe che dalla carrozzina offre la musica (di nuovo una componente sonora caratterizza un bisogno) della sua radio in cambio di monetine, altro atroce scherno delle facoltà musicali dell'Africa, mutilate e impedite nelle loro espressioni culturali, che, come nel caso del ballo della ragazzina, sono arricchite, ma immalinconite, dalle mutilazioni; finché non scattano meccanismi psichici di danno irreversibile. La donna accusata ingiustamente è impazzita e la vediamo aggirarsi per il mercato sconvolta dopo che l'intento di Sili le è valsa la libertà in una scena da brivido per la determinazione della protagonista che si avvale dei sacrosanti diritti per sancire il bisogno di ottenere il rispetto e ribadire la pretesa di giustizia: una debole sciancata, oppure il dialogo con il capo degli sbirri, montato da Mambety con una sottile vena di divertimento che cancella ogni retorica e lo rende una delle più intense rivendicazioni della storia del cinema; incalzante nella sua semplicità e inconfutabile nella sua logica di liberazione.

Ed è quella sequenza a dare un senso ai vari episodi della deambulazione per le strade di Dakar: sono le quotidiane lotte per difendere la propria dignità: infatti dopo la distribuzione con i derelitti dei 10000 franchi capitati provvidenzialmente e la battaglia di giustizia con il gendarme, vinta incredibilmente per la sicurezza di essere nel giusto, assistiamo ai passi di hip hop e al duplice intervento salvifico dell'amico, che indossa una maglietta in cui si reclama una scolarizzazione di massa. Tutto si configura con una speranza suggellata dal sodalizio finale, ma è una soluzione sorprendente ripensando alla tristezza della figura che all'inizio della pellicola usa una mazza per ridurre in frantumi pietre, ciottoli che non porterebbero a nulla, se il film non prendesse le mosse da quei gesti faticosi e tantalici: la decisione di Sili di oltrepassare la condizione di mendicante e farsi strillone, firmando con un bellissimo sole la ricevuta del giornale governativo (candidamente: "Così faccio sapere al popolo la posizione del Governo"). Un sole utile per segnalare il carattere di questa "fiammiferaia" (il titolo allude a La petite vendeuse des allumettes), per nulla indulgente alla facile commozione, bensì solare e consapevole almeno quanto la protagonista androgina di Touki Bouki, decisa e in grado di affrontare senza inquietarsi gli atroci dileggi dei ragazzini di strada che le rubano le grucce, radicalizzando un altro elemento linguistico già introdotto durante il suo primo approccio con la vendita nella somma di grida di strilloni, traffico e mercato: la concentrazione di urla e attenzione visiva calamitata attraverso dettagli vieppiù ravvicinati in una successione repentina che varia lo scorrere delle immagini, rendendo impossibile reggere la quantità di messaggi concentrati in una sola sequenza, svuotata infatti una volta raggiunto il culmine del climax. Questo andamento si ripete lungo tutto il film fondato sulla costante preparazione di una nuova onda di emozioni visive e sonore parallelamente incalzanti che culminano nel loro incontro in un frastuono unico di immagini e voci, come l'ultima: "Questa storia è buttata in mare, il primo che la racconta andrà in paradiso".