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La Cičnaga
Anno: 2001
Regista: Lucrecia Martel;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Argentina;
Data inserimento nel database: 03-07-2001


La Cičnaga

 

regia e sceneggiatura
Lucrecia Martel
(miglior opera prima al festival di Berlino e miglior sceneggiatura latinamericana al Sundance)

fotografia
Hugo Colace (ADF)

montaggio
Santiago Ricci

suono
Hervé Guyader, Guido Beremblum, Adrian de Michele

scenografie
Cristina Nigro

produttore esecutivo
Marta Parga

produzione: LITA STANTIC PRODUCCIONES
provenienza: Argentina
distribuzione italiana: Pandora
durata: 102'
vendita internazionale:ORFEO FILMS INTERNATIONAL
Head Office: Riehler Strasse 1,
D-50668 Köln
Telefono : +49-221-130 56 60
Fax : +49-221-130 56 61
E-mail : [email protected]

Limbo dove temere la ripetizione e inebriarsi della speranza che nulla cambi

La Cičnaga


interpreti:
Graciela Borges .... Mecha
Mercedes Moran .... Tali
Juan Cruz Bordeu .... José
Martin Adjemian .... Gregorio
Diego Baenas .... Joaquin
Leonora Balcarce .... Veronica
Silvia Bayle .... Mercedes
Sofia Bertolotto .... Momi
Noelia Bravo Herrera .... Agustina
Maria Micol Ellero .... Mariana
Andrea Lopez .... Isabel
Sebastian Montagna .... Luciano
Daniel Valenzuela .... Rafael
Franco Veneranda .... Martin
Fabio Villafañe .... Perro

 

 

Un aspetto subito evidenziato dall´assenza del doppiaggio è la predominanza dei singoli elementi minimali del sonoro, tutti separatamente isolati: dapprima viene sottolineata la "musica" dei cubetti di ghiaccio, iniziando a comporre una lenta sinfonia che mira a raggiungere il diapason del lancinante rumore del vetro rotto, da cui far sgorgare il rivolo della lunga serie di cicatrici e ferite sparse tra lancinanti squilli telefonici presaghi di comunicazioni puramente fatiche e strascinamenti di sedie. Proprio il rumore delle sedute ai bordi della piscina stride all´inizio del film, ripetendosi nel finale racchiudendo il lavoro tra scricchioli, evidentemente simbolici della impossibilità del cambiamento. Tra la musica del ghiaccio e la rottura del bicchiere sono elencati tutti gli elementi che caratterizzano la pellicola, più volte ripetuti (e questa iterazione è ascrivibile alla paura di fondo che tutto si ripeta): la palude a cui rimanda il titolo, dove torme di ragazzini imperversano armati in un´atmosfera lugubre e violenta, in cui gli armenti soffocano nelle sabbie mobili; lacrime adolescenziali in una camera introducono a rapporti guastati da razzismo e classismo in una chiave ancora schiavistica; altrettanto malati sono i paesaggi nei quali mai fa capolino il sole e le nubi addensate all´orizzonte sono persino più minacciose di quelle di Solanas, annunciando col sordo borbottio del tuono momenti cupi.


Nella primissima sequenza tutto è sospeso e unificato dalla medesima ottica mantenuta costantemente per inquadrare particolari di corpi sfatti dalla calura ai bordi di una piscina putrida da cui salgono miasmi: l´obiettivo adottato non deforma con il grandangolo, perché produrrebbe un effetto irreale, mentre il grottesco deve nascere dall´incongruenza di talune situazioni, che tuttavia contribuiscono alla fine a riannodare l´accozzaglia di dati apparentemente autonomi, e la regista sceglie di non allontanarsi dai corpi in campo, quasi a volerne catturare il disagio di vivere in un contesto ancorato a un passato che non si vuole trascorso; l´effetto è di comprimere personaggi e oggetti, inchiodandoli all´immobilità o a faticosi e lenti movimenti da ubriachi, in una trance squarciata dalla canizza latrante, elemento inquietante che si affaccia più volte a impaurire e insidiare i gesti quotidiani (dapprima nel sonoro, poi con la presenza di cani quasi costante e poi anche nei nomi e soprannomi di uomini chiamati Perro: coprendo così l´intera costellazione dei piani espressivi privilegiati dalle ossessioni del film), a cui sta molto addosso la macchina da presa, come se ogni movimento venisse controllato, sezionato e soffocato. Perpetuandolo, ma non nel suo massimo fulgore, bensì rappresentandolo come incantato e alla ricerca di eternare una condizione del passato vissuta come ottimale, però percorsa dal suo decadimento che l´accompagna assistendo alla sua putrefazione. Di qui lo schizofrenico limbo in cui si finisce con il temere la ripetizione – che più volte si propone – e contemporaneamente tentare di congelare una condizione irreale, ottenendo quella sensazione di immobilità consentita anche dall´uso di frequenti immagini fisse su personaggi immobili in posture anche innaturali, stravaccati su letti perennemente sfatti.



I rapporti tra i personaggi sono improntati a due moti essenziali: il gelo indifferente o lo scoppio d´ira; il ragazzino cieco ne è un esempio eclatante; non parla quasi, ma minaccia gli indios indiziati di sevizie ai danni del suo animale: "Se davvero l´hanno fottuto gli caverò gli occhi". Racchiude in questa battuta tutto lo stile del film: le esplosioni di violenza si alternano a sarcasmi feroci come quello relativo all´accecamento pronunciato da un orbo, mantenendo un tono esilarante dato dal tratto surreale e dalle situazioni. Centrale in questo senso è l´episodio del refrigerador Upsala, che s´insinua realmente nella casa a partire da un lungo e defatigante spot; dopo l´uso della pubblicità televisiva almodovariano parrebbe improbabile rinvenire qualche elemento di originalità in questa pratica, invece spicca in questo gusto per i siparietti che traggono ilarità proprio per il fatto che sono non-eventi, sui quali si appunta l´attenzione, spostandola dal vuoto, ma solo con l´intento di acuirne la presenza, per infiggere l´intero microcosmo in una sorta di stallo dovuto all´attesa dell´evento annunciato con la perdita di equilibrio, che causa la rottura del bicchiere.

L´effetto è quello di inanellare una serie narrativa originale che nega l´intreccio classico, producendosi in accumulazioni di fatti isolati che vanno a comporre il quadro di una provincia, quella di Salta, dove la depressione economica sta esplodendo con rivolte furiosamente represse. Dunque si creano microstorie anche divertenti, anodine fondate sul gusto provinciale per l´aneddoto, che distraggono dalla vacuità, tanto poi da non prevedere alcun testimone nel momento in cui il fatto, ampiamente annunciato dalle infinite prolessi, avviene davvero – quasi una concrezione che prende forma dall´addensarsi di molti elementi introdotti e insistentemente riproposti e non per sviluppo di un plot coerente – dando compimento a quelle angosce che animano tutte le esperienze del bambino-vittima designata dei latrati che tanto lo attraggono. Questa distrazione sembra offrire un grado di rappresentazione allusiva al commento di Momi, che chiosa il film: "Yo esté donde sen aparece la Virgen. Non vide nada". La stessa assenza di ricezione che aveva caratterizzato Buenos Aires Viceversa di Agresti con il costante tormentone dell´assenza di responsabilità un po´ con cattiva coscienza a seguito del non (aver voluto) sapere. Quella è la colpa che opprime tutti e che informa lo sguardo della mdp: nessuno vide nulla e la narcosi prosegue incancrenendosi nella serie di differenti punti di attrazione degli sguardi vuoti della massa di personaggi che occupano fisicamente lo schermo e non interagiscono nemmeno nei punti di fuga, se non per banali complicità, che non portano a nessuna azione, nemmeno alla vagheggiata fuga "a Bolivia"; neanche una delle innumerevoli conversazioni telefoniche produce scambi di informazioni o di decisioni.

In tutto questo le figure femminili sono privilegiate: risultano meglio sfaccettate, con più spiccate differenze rispetto alle "nullità" maschili. Tutte insoddisfatte, litigiose, caustiche. Nonostante l´impaludamento e la trance collettiva sono quelle più in movimento, a qualunque età, seppure il loro agitarsi non porti comunque a nulla; rispetto alla indolente rassegnazione degli uomini, esse sono chiamate a molte azioni irrisolte, se non conducendo a nuove ferite e cicatrici per gli adulti e a nuove suggestioni da incubo per il bambino, che si insinuano nel nostro plot (già carico di una pletora di storie diverse e sorprendenti) subdolamente attraverso racconti verbali senza riscontri iconici, ma orripilanti (come la storia del ratto grosso come un cane che una volta aperto aveva una fila di denti all´interno: evidente rappresentazione di un orrore interiore, segreto, psichico) che si addensano in zone dell´inquadratura dove di nuovo sembrano comprimersi le volontà e i soggetti appaiono schiacciati, fino a individuarle nel muro al di là del quale quella forza beluina attrae la vittima sacrificale, rendendo la parete l´ennesima e ultima superficie che blocca la percezione, il movimento, il cambiamento, inchiodando lo sguardo in un´angusta inquadratura volutamente insoddisfacente.

Un´altra esplosione di violenza è emblematica e vede i ragazzini accanirsi sui pesci, usando inappropriatamente il machete; come avviene in altri frangenti il motivo di quella furia appare sempre più irrazionale e sviluppa ulteriormente quella compressione degli elementi contenuti nel quadro che fin dall´inizio lascia sempre tra parentesi le cause degli improvvisi episodi di violenza, negando armonia alla natura in una sorta di antiromanticismo che sostituisce il titanismo con l´abulia, ma mantiene il segreto del fenomeno naturale, mantenendo fuori campo quella che è la vera causa di quegli effetti devastanti sulla volontà dei soggetti: il muro d´acqua nasconde con l´apertura della diga il segnale che fa scatenare i ragazzi in un sabba truculento. È come se venissimo sempre tenuti all´oscuro di una parte, quella al di là del vetro contro cui esplodono i palloncini d´acqua in un´affascinante immagine: si opera una selezione misteriosa che ci pone di fronte a manifestazioni che devono rimanere anodine per mantenere l´effetto della mancata rivelazione della loro causa: è lo stesso principio a monte delle apparizioni della Virgen e dunque della sovraesposizione televisiva che, se ne legittima i recit per un verso, per l´altro agevola il gusto per l´assurdo, in cui facilmente siamo esclusi da spiegazioni perché non ce ne sono di valide per una situazione diffusa capillarmente: "Non funciona nada".