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L'ombra del vampiro
Anno: 2000
Regista: Elias Merhige;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: GB; USA;
Data inserimento nel database: 16-02-2001


L'ombra del vampiro

L'ombra del vampiro






Tutto quello che non è inquadrato non esiste


 



Regia:  E. Elias Merhige
Sceneggiatura:  Steven Katz
Fotografia:  Lou Bogue
Musiche:  Daniel Jones
Montaggio:  Chris Wyatt

CAST

F.W. Murnau   ..........John Malkovich
Max Schreck   ...........Willem Dafoe
Albin Grau   ..........Udo Kier
Henrik Galeen   ..........John Aden Gillett
Fritz Arno Wagner   ........Cary Elwes

Produzione: Paul Brooks, Nicolas Cage, Jimmy De Brabant, Richard Johns, Jeff Levine
Distribuzione: CDI
Durata: 91'
Anno: 2000
Nazione: Gran Bretagna Stati Uniti Lussemburgo

"Murnau" era il nome che invariabilmente Bertetto - non ancora docente - proferiva, nella sua funzione di assistente di Rondolino, all'università di Torino durante gli appelli di Storia e critica del cinema una ventina d'anni fa e nulla usciva più di quel bisillabo dalla sua espressione imbronciata e ancora nero-barbuta da ex militante di potere operaio disilluso. Bastava il cognome e veniva pronunciato con un particolare tono ispirato: tra la minaccia sottile del vampiro e lo squarcio su un universo pericoloso ma affascinante. Il candidato doveva sapere che poteva capitargli e una marea di immagini si accalcavano alla mente; tutte invariabilmente tremolanti in quella fioca luce che sembrava trasalire quando il mascherino lasciava trapelare un fiotto sulfureo o una sciabolata di emozioni scoperchiava il buio di Faust e una ventata di solitudine si impadroniva dell'anima dello studente come se fosse nella palude di Aurora, illuminata dalla luce gelida della luna riflessa.
Ritrovarsi al cospetto dello sguardo scrutatore del docente glaucopide era comunque una tempesta emotiva come quella che aleggiava sulla tragedia di anime appassionate e in eterno condannate dal fato di Nosferatu.

 

Non si può dire che la sinfonia (des Grauen) venga riprodotta fedelmente da L'ombra del vampiro, ma alcuni momenti filologicamente intensi emergono assieme alla strabiliante bravura sia di Malkovich-Murnau che soprattutto di Schreck-Dafoe – quest'ultimo si mantiene prodigiosamente in bilico tra la prova d’attore immedesimato alla Stanislavski (più volte citato anche con scherno, senza per altro spiegare le diverse concezioni del mestiere di attore) e il tono ispirato –, mentre il compito di Mehrige è come quello degli "scienziati impegnati nella creazione della memoria", una creazione che è qualcosa di più della conservazione, diventando proprio una truculenta ricostruzione visionaria degli eventi legati alla produzione del film del 1921: rispetto ai tanti momenti "fintamente" filologici il grand-guignol finale è comunque controllato, non diventa mai purtroppo la spirale barocca di The Addiction, semplicemente è un omaggio al fantastico e pur ripetendo pedissequamente le angolature e le ottiche – dimostrando quanto sia importante il guizzo di vita che Murnau sapeva infondere e Elias Merhige invece non conosce – il regista si ritaglia la libertà di farsi prendere dall’orrore che sta documentando; quella "fantasia diversa che sta inseguendo", come il conte Orlok, che ne ha una sua particolare, probabilmente è nella struttura del film ripetuta dai due personaggi principali: un film che rielabora variandolo un making di un film famosissimo possiede virtualmente tre piani di rappresentazione come tre sono i livelli di straniamento di Dafoe che interpreta il ruolo di un attore che recita – immedesimandosi – il vampiro, essendolo lui stesso.

Il regista sembra un bravo studente di Bertetto, che avesse studiato e quindi sciorinasse coltamente la lezione: uno di quelli bravi, sicuramente imbevuto di espressionismo, forse rapito di più dalla sua capacità di ricostruire il lavoro del geniale originale che non dal sottile fascino perverso e dalla struggente metafora passionale sottolineata in modo ben più evidente da Coppola e forse persino dalla disperata coppia Kinski-Ganz di Herzog, forse con l'anima già in parte venduta, quando – consapevole dell'ignoranza dilagante – tiene a spiegare per filo e per segno luogo, tempo, personaggi, e questo non solo correttamente attraverso le didascalie, puntualmente riprese dal cliché antico e fonte di un approfondito studio della loro funzione che si esprime con l'ironia dei cartelli inseriti, ma creando una ridondanza che duplica in ogni sua parte il tema e le movenze del film; in questo modo si avverte ancora di più la duplicità che trascorre lungo il film: due sono le mdp che riprendono il buco nero dal quale si manifesta Nosferatu la prima volta, doppia è la realtà, quella del film nel film e quella della realtà diegetica rispetto ai riferimenti ricostruiti in bianco e nero, ambiguo (e quindi doppio) il comportamento di Murnau, tramite fra una realtà che avverte la presenza del pericolo e la coscienza di esporre al pericolo il mondo, lasciando l’orrore libero di manifestarsi per documentarlo, ma con il pericolo di diffondere l’epidemia di violenza. Doppio il mondo: a colori e in b/n, mediato dal linguaggio in maniera evidente e attraverso infingimenti, esponendo un po' meccanicisticamente il divario-rapporto tra realtà e sua rappresentazione.


L'essenzialità del tratto espressionista così ricostruito esplicitamente lascia spazio a un barocchismo, che è cifra dell'ottantennio trascorso, forzatamente costretto a divenire maniera quando ripropone un testo già molte volte interpretato e passato nell'immaginario comune; certo che l'introduzione si prolunga a dismisura, rincorrendo moltissimi elementi del cinema tedesco dei primi anni 20: la storia sintetizzata verbosamente viene poi fortunatamente esemplificata con alcuni tratti, luoghi comuni imprescindibili, che non potevano trovare posto nella precisa ricostruzione di Nosferatu, ma che non potevano mancare come la sagoma aerodinamica del treno e le riprese sui binari in corsa. Esagerata è l’insistenza su dettagli non troppo unici e suggestivi come avrebbero potuto essere gli alambicchi di Faust, alla fine non resta che "utilizzare il giusto realismo": di nuovo ambigua frase che può alludere sia all'intento di Murnau di riprendere la realtà, senza ricostruirla ("I generici non devono recitare, devono essere"), ma anche al fatto che quella che passa attraverso l'obiettivo è l'unica realtà possibile, tanto che, come se fosse una dichiarazione di intenti poetici, all'inizio l'occhio e l'obiettivo vengono assimilati da due inquadrature contigue, non montate tra loro, semplicemente giustapposte e così assimilate, sovrapposte. D'altra parte i titoli scorrono su quinte sceniche che scompongono l'atmosfera espressionista in singoli elementi significanti con un effetto un po' barocco, ma efficace. Alla formazione dell'ambiente vorrebbe contribuire l'isolata sequenza del ballo, inserita forse per un ulteriore scrupolo didascalico sul periodo di decadente e dissoluta società corrotta nei costumi, ma è solo un incidente per fortuna breve, che forse tenta di alludere all'omosessualità di Murnau, ma rimane isolata prima di diventare un episodio che possa spiegare l'attrazione per il vampirismo.

Il film si dipana curiosamente privo di un palese stile e questa difficoltà di "etichettare" l'operazione del film – più che il prodotto stesso – sembra essere un motivo di maggior interesse della pellicola. Non so se sia eclettico: in effetti possono apparire molteplici le influenze, tutte diverse, che contribuiscono alla fattura del film, oscillante tra piacere derivante dall'imitazione, dal calco, dal rifacimento e nostalgia per l'immagine traballante, b/n che pulsa, irradiando
sprazzi di schermo. Indubbiamente la lotta tra colore slavato (anche quella scelta di toni nient'affatto verosimili è parte del meccanismo di rappresentazione di realtà molteplici, nessuna veramente realistica) e fascino della luce espressionista vede gli autori schierati dalla parte di quest'ultimo; sembra quasi che, più che i segnali che la tecnica mette a disposizione per rilevare il cambiamento di ispirazione (mascherini, ottiche, luci...), a percorrere il film e offrire i momenti più felici sia l'atteggiamento reverenziale con cui si commuta l'informale ironia del "being F.W. Murnau-Malkovich" nel momento in cui si trascorre dal colore al b/n.
Forse in questa vena "manierista", nell’accezione più accademica di rimeditazione del già codificato, sembra racchiudersi la motivazione di quelle sequenze ricostruite con precisione al punto che l’unica ristampata non è nemmeno isolabile dalle altre rifatte ex novo: in questo atteggiamento erudito – ma senza sofisticate speculazioni, anzi forse eccessivamente corrivo – sembrava di cogliere quella gioia di rifare la maniera di Murnau in modo accademico senza aggiungere nulla, se non il tempo che si è frapposto in mezzo e che rende la proposta inattuale, rendendo ancora più evidente la patina di nostalgia per sensazioni che si possono solo immaginare al di fuori di quello splendido mondo di sfrenatezza che fu la Berlino pre-hitleriana, senza infingimenti, remore o censure, di cui il vampiro è massima espressione in quanto collettore di ogni arte degenerata e di ogni liberazione di pulsioni individuali.




Ma la vera punta di diamante del lavoro di Elias Merhige è il gioco sull’alternanza dei colori con il b/n: talvolta il colore è legittimato dalla voce fuori campo che ci fa propendere per la sensazione di assistere alla ripresa, ma mantenendo un distacco ulteriore proveniente dalla voce fuori campo che ci riporta al nostro tempo (in cui abbiamo evidentemente bisogno di didascalie sonore, quando invece i contemporanei di Murnau avevano le immagini, tant’è vero che il primo a subire il fascino e i denti dell’immortale è il cameraman, la fotografia rimane impressionata, perché non è lo specchio: per amare il vampiro ci vuole immaginazione, non è sufficiente il realismo, ci vuole il "giusto realismo" e la sensibilità della fotografia, che va a caccia di una fantasia diversa da quella immediatamente visibile, è in sintonia) e quindi al film giunto dopo tutte quelle affabulazioni successive al prototipo, che urge a tal punto da spuntare nel bel bianco e nero filologico, a seguito dell’ordine: "Iride in chiusura", che abbandona il colore e senza stacco ci tuffa nel film, facendoci saltare tutti gli anni che ci dividono da Murnau, dal film di adesso a quello di allora. Tuttavia non è ancora concluso il differente uso dell’alternanza cromatica – ben diversa da quella ordita da Yimou e anche da quella di Memento – che sapientemente ci mostra un campo-controcampo tra l’inquadratura del film ricostruito in b/n che diventa a colori quando il punto di vista della mdp coincide con la falsa soggettiva degli attanti, pur mantenendo sfocati sullo sfondo il regista, lo sceneggiatore e lo scenografo, che non sono più i tenutari della focale, ma continua comunque a prevalere il colore perché l’unica realtà vera – quella in bianco e nero – è quella che ci ha lasciato la fotografia immortalata da Murnau: il resto non è reale e dunque va a colori, in quel colore irreale che si ammanta anche del tempo e di come l’immaginario collettivo rappresenta la patina di anni (quell’eternità che è poi la caratteristica del personaggio di Stoker), ciò che sta fuori dal girato, il fuoricampo. Il fuoricampo ha finalmente una dimensione ed è banalmente colorata, non evocativa come quello che sta dentro il mascherino nero, lo sguardo della macchina da presa, vera vampira che succhia la vita, ma la eterna finché il sole non la scioglie in un altro bellissimo montaggio delle attrazioni: vampiro, che svanisce al sole in una delle più ispirate inquadrature della storia del cinema (quella di Murnau, rivisitata da Meherige, un po' blasfemo), fuso nel montaggio con la pellicola che sciorina in chilometri di girato la consumazione del dramma e della vita. Unica immagine sintetizzata dal montaggio prima del ciak con su scritto non "ende", ma "tod" e anche unico momento in cui il colore, della pellicola, e il bianco e nero, dell’immagine eterna, si confondono in un unico tempo, né passato, né presente, puro tempo filmico, quello della morte al lavoro. E ha gli occhi di Murnau.
Un momento metalinguistico già preparato da innumerevoli altri: quello più significativo vede Orlok far scorrere del girato su un muro, ma quello che il proiettore emana non ha la stessa potenza evocativa della mano ingigantita sul muro stesso con gli inconfondibili artigli del vampiro alla luce artificiale della lampada del proiettore, succedaneo di quella luce solare che è massimo desiderio del vampiro e al contempo simbolo chimerico della sua dissoluzione.

 

Manca completamente la percezione in nuce del nazismo in quell'angoscia che pervade l'originale e che Lotte Eisner aveva saputo cogliere e denunciare come componente essenziale dell'intera parabola espressionista, ma neanche più Bertetto è di pot.op da moltissimi anni, anzi: si riflette più facilmente nello specchio della realtà la figura del vampiro di quanto possa apparire seppur fievolmente il ricordo della passione politica.