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Judy Berlin
Anno: 1998
Regista: Eric Mendelsohn;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 19-10-1999


Judy Berlin


Regia, soggetto e sceneggiatura: Eric Mendelsohn
Fotografia: Jeffrey Seckendorf
Operatore: George E. Byers
Musica: Michael Nicholas
Suono: Stephen Altobello
Scenografia: Charlie Kulsziski
Costumi: Sue Gandy
Produzione: Rocco Caruso
Distribuzione: KeyFilms
Formato: b/n 35 mm, 1:85, dolby A
Provenienza: USA
Anno: 1998
Durata: 1 hr. 34 min.
miglior Regia al Sundance 1999



CAST


Barbara Barrie--------- Sue Berlin
Bob Dishy ---- Arthur Gold
Edie Falco---------- Judy Berlin
Carlin Glynn -------------- Maddie
Aaron Harnick -------- David Gold
Bette Henrize -------- Dolores Engler
Madeline Kahn -------- Alice Gold
Julie Kavner -------- Marie
Anne Merea -------- Bea
Novella Nelson -------- Carol

Filmografia

1992: Through an Open Window




Un'unica similitudine con Il vento ci porterà via : di nuovo un regista alle prese con un documentario su un luogo particolare durante il quale non succede nulla e che probabilmente non realizzerà. Se ne differenzia per l’atteggiamento nei confronti della materia trattata. Un canovaccio che sta a metà tra dileggio negato della provincia e sua altrettanto evitata esaltazione (questa condizione di sospensione è ribadita dalla madre di David, la quale allo specchio dice di sentirsi come nella serie Twilight zone); gozzaniano per certi versi, ma senza alcuna nostalgia.

Pronunciando la frase relativa alla possibile metafora insita nella eclisse, si tesaurizza l’informazione, ma allo stesso tempo si comprende che non era di quella banale similitudine tra eclisse e stato mentale che si occupava l’autore. Allo stesso modo, ma per un procedimento opposto, dichiarare velleità documentaristiche significa indicare un ulteriore livello di lettura insospettabile (infatti "Ci vuole la faccia come il culo per proporlo") e allora il docufilm diventa anche la descrizione dei patemi di uno stereotipo di cittadina esaltati dalla strana luce gettata sulla "passeggiata sulla luna"delle due donne, e la distanza consente di esplorare meglio il quotidiano che scantona o si dimentica al punto che i mobili nella casa della vecchia Dorothy e gli oggetti sono contrassegnati dal loro nome, come quando si deve imparare una nuova lingua: anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una nuova condizione di diversa sensibilità alla norma, di cui l'eclisse è pretesto e che produce strani influssi ad esempio su Arthur, il preside in stato confusionale pure lui: "Ti rendi conto che io non so quello che sto facendo", con volto stranito e un po' atono, come se si fosse appena risvegliato da un sonno; e la veglia gli consente di comprendere la sospensione dal mondo che caratterizza la sua quotidianità: "La realtà è così... reale. Non so come altro descriverla". Questa frase riassume lo sconcerto del regista di fronte all'impegno di rappresentare la realtà e la sorpresa al suo palesarsi spontaneamente. É un'ovvietà, ma all'interno del film serve per segnalare una rivelazione: l'equidistanza nella scelta operata da Mendelsohn tanto dalla mera registrazione di eventi quanto dall'intervento sugli stessi, senza abbandonarsi ad una semplice analisi a distanza, comunque non abiurata, bensì affidata alle scelte sintattiche, come la funzione commentativa delle plongée a fine sequenza; a questa dichiarazione sulla realtà del documentario fa da contraltare un'altra realtà, mai negata come tale, anzi a giudicare dalle parole della traduzione in doppiaggio il cinema è l'autentica realtà (ed è feroce, non ovattata come la provincia avvolta nella penombra): "A Hollywood. Quello è mondo reale con attori veri e veri film".

Forse nominare una realtà elusiva permette di recuperarla, attraverso i nomi scritti o le definizioni pronunciate, certo che appena indicate le singole parti del mondo sfumano, lasciando nel dubbio di averle davvero acquisite o descritte, inserendo quei bellissimi momenti di sospensione dal mondo: le pause dalla ragione che generano sconcerto. Una fenomenologia sfuggente prima di tutto a coloro che la agiscono e poi al regista; da ultimi a noi, interdetti su quale aspetto privilegiare.

La centralità della luce è ribadita da David con le sue prime parole: "Tutto era pieno di luce quando ero bambino", ora il mondo è appannato. Si tratta di un’esperienza che abbiamo provato tutti, ma che sfugge ad un’emersione alla coscienza, mentre nel film è preparata da un lungo fluido movimento di macchina, di quelli classici nei film introspettivi, che scende nei sotterranei della scuola per risalire di fronte a David, afasico dietro alle sbarre della finestra, affondato in un cocciuto silenzio, dopo che si sottolinea l’identico stato della madre: l'intero impianto sembra voler denunciare un'adesione ai parametri tipici del cinema di erosione psicologica. Di fronte allo specchio entrambi, come a ricercare quel che si è perso. Una ricerca che il preside Gold, il padre di David, fa al buio: "Devo avere una dispensa papale per stare qui al buio?". Detto da un ebreo è un po' sorprendente.
E nuovamente l'ombra e la luce diventano elemento narrativo e materia di discussione.
Tutte queste tracce sono realizzate con competenza e dimostrando una lunga frequentazione alleniana di Bergman e dintorni, ma poi si avverte una presenza aliena che va al di là di tutti gli indizi che condurrebbero alle solite turbe. Sulle immagini della cittadina rintocca una campana apparentemente simbolica dall’inizio, fino a quando i lampioni si spengono e passa il treno. Tutto il film concentrato in poche immagini? Il bisogno di scappare racchiuso nel convoglio che mentre compare il titolo taglia lo schermo da sinistra a destra (e dunque in partenza (secondo applicazioni gestaltiche della direzione della scrittura occidentale); i lampioni, segnali che tutto era previsto, ma incapaci di "gettare luce" sullo strano comportamento di tutti di fronte all’eclisse, durante la quale si riaccenderanno, conferendo quel grigiore livido alle strade deserte; le campane che tornano a cadenzare i momenti in cui non capita assolutamente nulla e quindi sta succedendo il film. La serenata numero 10 di Mozart è ipnotica al punto da conferire al film una patina irreale, come se il paese vivesse immerso in un carillon, che si aggiunge alla luce, attenta a tenere conto del lucore selenita dell’eclisse.

Già questo sarebbe sufficiente per un decoroso film colmo di idee rimaneggiate in modo originale e inserite in un'atmosfera surreale, ma familiare, riconoscibile; tuttavia si coglie una sfumatura insolita che rinuncia alla solita descrizione della provincia ripiegata su di sé, impicciona, asfittica, pur non rinnegando questa analisi o, peggio, intessendone le lodi, benché un vago sentore di fragranze esclusivamente mid-west aleggino. Allo stesso modo le sequenze della rievocazione storica della vita colonica del 1853 si avvertono come smaccata dichiarazione dell'intento del regista di evitare la ricostruzione macchiettistica della Babylon attuale, facendolo invece con il grottesco siparietto sulle attività dei coloni: marcando così la differenza (il set sempre un po' infitto in una tenue oscurità, soprattutto ai bordi dell'inquadratura, che incupisce ogni cosa, è al contrario inondato di luce durante la visita al villaggio ricostruito) tra le sue due locations e quindi tra la motivazione e il divertissement.La scommessa del film sta proprio nel rimarcare tutti i distinguo intentati dal regista rispetto ad una materia già ampiamente trattata, la sua condivisione dei mezzi di riproduzione con le passate esperienze e quella sorta di odi et amo che pervade tutto il film, che gli fa negare un'affermazione appena pronunciata o gliela fa ridiscutere parzialmente; in questo modo afferma modi di filmare la realtà per negazione dei materiali già formalizzati in passato o da lui stesso poche inquadrature prima.

Parecchi gli aspetti linguistici interessanti, soprattutto gli espedienti volti a esprimere l'incomunicabilità non per ragioni esistenziali, ma perché ciascuno è fuori per conto suo, in un mondo nel quale ci si dimentica di tutto, ma l'oblio colpisce con modalità differenti. Mendelsohn ribadisce situazioni con la ripetizione dell'inquadratura, ma tutte conducono all'inconsapevolezza sul perché ci si trova in un luogo e a fare cosa, poi? Spesso a questo proposito si può ammirare una figura in primo piano rivolta verso di noi e sullo sfondo gli interlocutori, come appartenenti ad un altro spazio: mai come in questo film la gente si da le spalle, parlandosi e interloquendo si fa attenzione a dire una marea di banalità, oppure insensatezze, perse dietro a chissà quali labirinti mentali individuali rigorosamente impenetrabili.
Interessante anche che all’esterno le inquadrature siano per lo più iniziate da attacchi sul movimento, in aperto contrasto con le statiche immagini di interni. più spesso proposte in campi lunghi, che non giocate sui primi piani.

Nonostante si parli di incomunicabilità e eclissi, Antonioni sembra lontano dai riferimenti, perché l’autore è attento a esplicitare direttamente ciò che non gli interessa comunicare: quindi l’eclisse non produce nessuna metafora della provincia, come invece vorrebbe il vecchio compagno di classe e come forse tutto sommato poteva essere negli intenti iniziali del regista, il quale poi si direbbe in corso d'opera si sia accorto di avere materiale per oltrepassare le banalità di quell'approccio risaputo e l'intuizione geniale è quella di mantenersi sempre in quella terra di nessuno, la twilight zone da dove si guarda l'eclisse proiettata sul pavimento con serie immagini nella penombra inquietante, confuse a battute imprevedibili di gusto ebraico (la rivendicazione: "Io sono ancora uno stronzo"). Il piacere è nel cogliere le volute contraddizioni e passare dalla predisposizione ad uno stato d'animo e ad un atteggiamento di pena e commozione per lo stato confusionale della anziana maestra in pensione, incantata nel suo prato e poi ripescata in una scena madre davvero sconvolgente a ridosso delle 12:48, ora clou fissata sulla lavagna, per abbandonarsi qualche inquadratura dopo a contemplare lo sguardo svanito della madre di David che canticchia: "Vorrei vorrei tanto, vorrei tornare giovane d'incanto", la fissazione di tutti nell'affannosa convinzione di poter recuperare una purezza perduta, illusione già disinnescata da loro stessi a priori, ma a cui si abbarbicano per poter superare il languore triste a cui tanto contribuisce e si attaglia l'effetto eclisse. Ed è lo stesso struggimento di Judy, a cui è dedicato il film senza che sia realmente la protagonista: il suo viaggio in California è anche per lei senza chance, ma ella, pur sapendolo, ci si aggrappa per sopravvivere all'eclisse, che ammanta ogni cosa con quella fredda tonalità conosciuta recentemente, per sottrarsi alle crinoline del travestimento ad uso turistico, ad una madre acida e distratta, ma anch'essa assolta nel finale.

A tutto si aggiunge un minimo distacco auto-ironico desunto dalla lunga militanza alleniana, che consente di sopportare le battute autoreferenziali come "così potrebbe anche finire un film", un po' risapute (soprattutto se si bada al luogo in cui sono proferite: la classica stazioncina che più cinefilo di così no può), e riecheggia nel chiasmatico bacio clou: anche David, figlio di Arthur, bacia Judy, figlia di Susan, nella sequenza successiva a quella dedicata alle effusioni dei rispettivi genitori; senza troppo trasporto per la verità, perché ogni emozione è come se fosse racchiusa nella patina dei raggi "lunari" del sole e quindi un po' appannata.








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