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Il viaggio di Felicia
Anno: 1999
Regista: Atom Egoyan;
Autore Recensione: Giampiero Frasca
Provenienza: Gran Bretagna; Canada;
Data inserimento nel database: 06-11-1999


Il viaggio di Felicia (Felicia's Journey); regia e sceneggiatura: Atom Egoyan, soggetto: tratto dal romanzo di William Trevor, direttore della fotografia: Paul Sarossy, montaggio: Susan Shipton, scenografia: Jim Clay, costumi: Sandy Powell, produttore: Bruce Dowey; interpreti: Bob Hoskins (Hilditch), Arsinee Khanjian (Gala), Elaine Cassidy (Felicia), Peter McDonald (Johnny). Gran Bretagna/Canada, 1999; durata 1 h e 55'. Il cinema di Egoyan lascia sempre esterrefatti per come riesce a districarsi sapientemente all'interno di una narrazione sempre complicata, difficile, ostica per come analizza le complesse psicologie dei personaggi, ardua nel suo seguire diverse vicende per poi fonderle magistralmente in un'unica, salda storia, ammirevole per la sua ricchezza e completezza estrema. Anche nel caso di questo suo ultimo lavoro, Egoyan riesce a saldare la situazione esistenziale di Hilditch, un uomo apparentemente mite, timido e paziente, che vive in una dimensione passata nel tentativo di recuperare la mancanza dell'affetto materno, salvo poi dimostrarsi uno spietato assassino di ragazze sole e problematiche che si offre di aiutare, con la vicenda di Felicia, una ragazza irlandese che fugge dall'opprimente luogo natio per inseguire in Inghilterra un coetaneo che le ha promesso eterno amore, l'ha messa incinta e, praticamente fuggendo dalla giovane, si è arruolato nell'esercito britannico, voltando di fatto le spalle alla propria nazionalità. Condizioni differenti, diversissime fra loro, unite soltanto, e molto meno flebilmente di quello che potrebbe apparire a tutta prima, dai temi della mancanza e della famiglia. Il personaggio di Hilditch vive costantemente nel passato: si sposta su una macchina degli anni Cinquanta, ascolta soltanto musica melodica degli stessi anni incisa su spessi dischi di vinile, utilizza aggeggi d'annata (elettrodomestici, cannocchiali) e, soprattutto, vede vecchie registrazioni di una trasmissione di argomento culinario in cui una affascinante signora dall'accento francese insegna come cucinare con classe e gusto. Nel corso del film lo spettatore scopre che la protagonista della trasmissione è Gala, la madre di Hilditch, il quale si vede (nelle registrazioni) e si pensa (in flashback) sempre come un bambino obeso, dimenticato dalla foga televisiva della madre, quasi la sua figura fosse rimasta congelata per sempre nell'attimo estremo dell'indifferenza. Dall'altra parte si situa Felicia, la cui mancanza investe la sfera sentimentale, dato che il ragazzo di cui è innamorata è fuggito mentendole (le ha detto che avrebbe lavorato in una fabbrica di tosaerba, mentre in realtà si è arruolato nell'esercito britannico, scatenando le ire nazionalistiche della fiera comunità). Anche Felicia ha un rapporto conflittuale con la famiglia, identificata nella figura del solo padre, rigido e severo, che non la comprende e la condanna senz'appello per qualunque scelta la ragazza operi. Persino Felicia pare vivere male la collocazione nel suo tempo al punto da apparire spaesata: le ragazze del suo paese sembrano meno impacciate e sognatrici di quanto non sia lei, parte dall'Irlanda senza nemmeno un documento addosso tanto che viene fermata dalla polizia di confine, vaga senza posa tra le fabbriche inglesi ma non sa assolutamente né dove sta andando, né tantomeno dove si trovi l'oggetto della sua ricerca. Eppure dall'incontro tra i due personaggi, dal ribaltamento dei valori presenti nella storia, nasce una nuova consapevolezza che si origina dal dolore dell'individuo: Felicia riuscirà a salvarsi nonostante le lusinghe di Hilditch, malgrado questi la convinca ad abortire, perché riuscirà a trovare dentro di sé la forza per reagire, la possibilità di ovviare alla propria mancanza prendendo pienamente coscienza del proprio presente relazionandolo al sofferto passato. Dimensione temporale che risulta decisiva sia per lo svolgimento e la risoluzione diegetica, sia per la struttura che Egoyan impone a tutti i suoi lavori. Hilditch è la fonte focalizzatrice che origina flashback filtrati da un'ulteriore istanza produttrice di sguardo: le sue scene raffiguranti il passato sono sempre proposte tramite un supporto differente dalla nitidezza dell'immagine a 35 millimetri, alcune volte attraverso una registrazione televisiva, altre in virtù di una ripresa video che mostra le altre vittime della sua attività di assassino seriale, altre ancora in bianco e nero, come immagine di un passato ancora più lontano ed irrealizzabile, le ultime attraverso la pastosità di colori sgargianti, quasi da reimbibizione cromatica indispensabile in seguito ad una sbiaditezza dell'immagine-ricordo. Felicia ha ricordi diretti, vivi e non filtrati: è lei che pensa dal suo caratteristico punto di vista, non ha bisogno di un altro supporto, è nella semplicità del recupero del passato la sua vera forza, cosa che Hilditch non è assolutamente in grado di fare. In questa concezione narrativa che integra passato e presente in una stretta relazione, che serve anche a caratterizzare il personaggio e a dotarlo di spessore drammatico attraverso il richiamo di notazioni indispensabili alla sua completa determinazione, passa l'idea stessa di cinema di Egoyan. È la caratteristica del regista quella di legare inscindibilmente passato e presente, senza soluzione alcuna di continuità, attraverso piani cronologici differenti che si inseriscono nella linearità del racconto e lo frantumano, lo spezzano, lo disgregano nelle sue componenti elementari per restituirlo allo spettatore sfaccettato, spiazzante, fluttuante ed enormemente affascinante. Egoyan abbandona la rigida linearità per affidarsi alla mancanza di vettorialità: rompe gli schemi della stretta cronologia per affidarsi alla disomogeneità narrativa, ma non al disordine. Quello che viene a crearsi è una specie di mosaico che piano piano si ricompone per formare un corpo unico, visto da differenti angolazioni e da prospettive temporali poste su livelli discrepanti, le quali si uniscono per dare un corpo unico, monolitico e granitico nella sua riuscita finale. Lo stesso regista spiega la sua scelta di campo, ormai caratteristica del suo modo di fare cinema, con una logica ferrea che evidenzia una volta di più la sua grande coerenza stilistica: «Usare il tempo in maniera strettamente lineare mi fa sentire come in prigione. La mente, per sua natura, fluttua avanti e indietro tra le diverse esperienze quando esse si relazionano con le circostanze del tempo presente, e per me è assolutamente essenziale strutturare i film in questo modo. La nostra diffidenza nei confronti di una narrazione non lineare è una conseguenza del fatto che la maggior parte dei film non approfitta delle possibilità del mezzo cinematografico. Sono convinto che quando si mostrano scene frammentate o sequenze non cronologicamente lineari, che a prima vista sembrano prive di coesione, ci sia in realtà un grande impulso creativo ed una interazione con il pubblico che deve rimettere assieme i pezzi. Questa tecnica rende attivi gli spettatori, li tiene impegnati - li rende più coinvolti nella storia - a patto che, ovviamente, io riesca a conquistarmi la fiducia del pubblico. Il pubblico ti seguirà nel viaggio del film se sa che i pezzi del film, ad un certo punto, si ricomporranno in un quadro».