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Il Viaggio della Iena - Touki Bouki
Anno: 1972
Regista: Djibril Diop Mambéty;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Senegal;
Data inserimento nel database: 08-04-1998


Touki Bouki

Il Viaggio della Iena - Touki Bouki

Regia: Djibril Diop Mambety
Musica: Josephine Baker
Interpreti: Magaye Niang, Marame Nyang
Formato: 35 mm.
Durata: 95'
Provenienza: Senegal
Anno: 1972

Con le prime immagini del film si riesce a fare un doppio catalogo di opposti africanismi: da un lato la frenesia irrequieta giovanile tesa a rompere con le tradizioni e usare lo studio come emancipazione (Anta, la studentessa androgina viene subito mostrata nella sua contrapposizione alle donne dedite a vendere coloratissime merci in mezzo a un vocìo sul quale si erge il muezzin), dall´altro le mucche al pascolo con le loro lunghe corna ed il bucolico suono di un flauto, disturbato dall´irrompere della moto di Mory, il quale ha preservato la caratteristica delle corna, ma collocandole sul manubrio del mezzo meccanico. Questo aspetto può apparire simbolico, perché il cinema di Mambety cavalca la nouvelle vague come Mory fa con la sua moto, aggiungendo i sapori senegalesi: le bestie al macello ed il gusto non sadico di mostrare i fiotti di sangue lo accomunano a molto cinema del continente nero, che in questo modo simbolizza la condizione delle popolazioni africane, mantenendo il contatto con la forza terribile della natura, lì con più forza palesata.
Le velleità di fuga vengono mantenute su un piano quasi onirico, come se Mambety presentisse che avrebbe dovuto vent´anni dopo descrivere il ritorno vendicativo di una emigrata (Linguére Ramatou di Hyenes) e già in questo film si accenna a ¨i giovani che partono e non tornano, o se tornano non badano alle tradizioni¨. La disperazione per questa situazione asfittica appare nel film chiaramente rappresentata dalla triste figura del postino, che attraversa lo schermo stancamente deambulando per le vie di Dakar, che ci vengono così offerte in una sorta di stranito documentario, quelle stesse strade che la ricerca di una fuga fa percorrere a passo di corsa ai due giovani amanti.
Nonostante Parigi sia un angolo di paradiso, come dice la canzone e nega la zia, vecchia arpia, Mory ad un passo dal viaggio, sulla scaletta della nave, Anta già a bordo, recede e allarga l´angusto spazio della capitale senegalese misurato più volte, facendo esplodere la dimensione che li ha oppressi fino a quel momento e che dall´atto di ribellione che scatena la corsa finale in poi dona cinque minuti di cinema surreale, dove i luoghi si trasfigurano a creare un mondo esclusivamente cinematografico: il ponte della nave su si aggira Anta sembra comprendere l´intero Oceano, di inquietudine del film e della ragazza, mentre il porto teatro della corsa di Mory si allarga a seguire lo scaracollare in moto del ragazzo (selvaggio) dei Baobab. Una collettiva allucinazione che completa le molte situazioni al limite tra simbolismo, sovversione degli schemi narrativi e divertimento puro e semplice (il gioco alle carte, il teschio nel baule azzurro rubato e trasportato per tutta Dakar in un taxi, la marchetta scampata con il furto, la telefonata del derubato al commissario Djibril Diop Mambety, l'ennesima parentesi onirica con la zia che canta e balla per il suo ritorno, riprendendo la tradizione dell'uso della musica nel cinema africano), finché la caduta dalla moto e la ragnatela tessuta dal postino con i suoi surreali spostamenti riportano l'ordine e l'amarezza sconsolata della vita ai margini del mondo.
La gestualità si esprime spesso con scatti sintatticamente datati, ma trova un riscatto nella ottima compenetrazione di questa recitazione con il montaggio quasi per attrazioni, che ad esempio alterna al sequestro di Mory da parte di teppistelli fascistoidi il macello di un agnello ad opera della zia Oumy, preludio alla surreale ripetizione della sua risata ejszensteiniana, mentre brandisce minacciosa e folle un coltello, sineddoche di tutti quelli che per l´intero film sgozzano capi di bestiame e che raggiungono l´apoteosi nel montaggio parallelo della sequenza finale, dove riesce a trovare spazio di nuovo il macello a concludere il racconto ad anello sul bucefalo rottosi nello schianto della moto: ¨Era una bella bestia¨, commenta allusiva una voce tra i curiosi.
Troviamo altri topoi del cinema di quel periodo, che non disturbano per l´intensità della reinterpretazione: è davvero liberatorio e coinvolgente il trasporto amoroso tra i due, anche se non vediamo il coito, ma l´onda del mare, mentre i sospiri della ragazza raggiungono l´orgasmo: infatti è il mare-confine che racchiude tutte le illusioni dei due ragazzi, incantati a scrutare una giunca dall´alto della scogliera, senza riuscire a staccarsi da quel loro punto di osservazone per prendere finalmente il largo. Probabilmente perché consapevoli che al di là del sogno non c´è nulla, nemmeno un altro sogno. Il regista stesso ammette: Tutte le mie storie finiscono nel mare. Come tutti i racconti della mia infanzia, iniziano con ¨C'era una volta ...¨ e alla fine si dice sempre ¨ed è così che questo racconto è finito nel mare, si è diluito nel mare ...¨ (pag.44, Poetiche del cinema africano, di Giuseppe Gariozzo, Lindau, Torino, 1998). Come avviene nell´epilogo di Tableau Ferraille, quando Gagnesiri si avvia verso il mare e il coro la scorta remando verso il largo.
La loro quotidianità ci viene mostrata sorprendendoci con una ripetizione di una sequenza simile nelle due riproposizioni per il taglio delle inquadrature, per i gesti, per la situazione, ma non si tratta della stampa duplice di medesime riprese, un espediente sapiente che non può non rimanere impresso nello spettatore; e non a caso si tratta del congiungimento dei due ragazzi nell´abbandono dell´amore sulla scogliera.
Lo scherno verso il colonialismo raggiunge vette di sarcasmo nei confronti di una coppia di insegnanti francesi, a cui Mambety affida la declamazione di luoghi comuni del colonialismo di sinistra nell´intento di legittimarsi. Ma la pulsione di libertà ormai si è rotta con il bucefalo.