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Il tempo dell'amore
Anno: 1999
Regista: Giacomo Campiotti;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 02-03-2000


Il tempo dell'amore

Peter.....Ciaran Hinds
Martha... Juliet Aubrey
Claire....Natacha Regnier
Gabriel...Ignazio Oliva
Naty......Natalia Piatti
Anne......Caroline Carver
Thomas....Tam Williams
Giuseppe..Giuseppe Faraso
Dottore...Lino Capolicchio
Lucia.....Rossana Fracassini
Madre di Naty..Sandrine Dumas

Regia............Giacomo Campiotti
Sceneggiatura....Giacomo Campiotti, Alexander Adabachian
Produttori.......Leo Pescarolo, Massimo Ferrero
Fotografia.......Blasco Giurato, Marcello Montarsi
Montaggio........Roberto Missiroli
Musiche..........Beppe D'Onghia
Distribuito da: Istituto Luce
Durata: 108'

"Cerco di notte nel mio letto l’amor mio, lo cerco e non lo trovo. Nei mercati e nelle strade avete visto l’amor mio?". Così s’inizia il côtè lirico del film, che non userà ulteriormente la parola, ma talvolta la foné per esprimersi di nuovo e non solo per il secondo episodio imperniato come da copione su una coppia di musicisti bohemienne in una soffitta di Parigi.
Poi esplode un’enorme onda ripresa come se fosse filtrata dalla immaginazione di Hokusai, mescolata ad alcuni fotogrammi che formano il bel puzzle contenente già la struttura del film che si vorrebbe evocare in modo da renderla riconoscibile nell’epilogo dell’intreccio delle tre storie, i cui episodi si fondono.

Ben studiate, ma non nuove le prolessi enigmatiche svelate al termine, come i rimandi da un episodio all'altro degnamente conclusi nell'ultima serie di battute: esse gettano nuova luce sulle battute del primo episodio, apparentandole in un anello che serve a sottolineare la destinalità deja vu dell'attrazione reciproca che provano due persone ("Cada hombre sigue su camino" canta il Sergente Garcia, ma purtroppo il ricordo va anche a La Fille sur le pont di Leconte); innovativo invece l'uso almeno in due frangenti della descrizione di una situazione per poi scardinarla svelando che il fuori campo custodiva un'altra realtà. Probabilmente questo è lo specchio di quella struttura volta a raccontare attraverso i meccanismi dell’intreccio, facendolo diventare narrazione. Riconoscersi innamorati per un improvviso gioco di un destino in qualche misura già presente nei protagonisti mi sembra l'ovvio assunto, che trae dall'uso della costruzione dell'inquadratura e dal montaggio dei particolari la descrizione della situazione palese, per negarla parzialmente lasciando spazio all'istinto e al destino acquattato tra le pieghe della struttura che sposta lievemente i dati fino a quel momento descritti nel trionfo del riconoscimento dello stato reale delle cose (che può rimanere sospeso una volta rivelato, passando la mano ad un amour fou, negato al momento della sua più evidente epifania, intrecciato a quello che con più evidenza mette in scena la speranza).

Il film gode di sporadici momenti intensi per intuizioni visive e attenzione ai dettagli degli oggetti e ai particolari dei corpi, ma in altri momenti subentra l’esperienza da videoclip del regista (che non resiste all’autocitazione: "Attenti al lupo" è un suo video per Dalla) e diventa stucchevole. Ne risulta un andamento schizofrenico, molto apprezzabile per la credibilità dei momenti di estasi dell’innamoramento e per alcuni trasporti passionali (unico aspetto davvero interessante della storia dei due musicisti che si comprendono risaputamente solo con il corpo è il climax che va dalla sveltina avvolti nel vessillo alla normale scopata di reciproco piacere a letto, focosa ma non violenta come l’ultima sul tavolo, sgradevole anche nelle piatte riprese), meno avvincente in quei momenti di raccordo all’interno dei singoli episodi, al contrario dei pregevoli espedienti che accomunano le tre situazioni.

Oltre alla intrigante struttura altri elementi la rafforzano, estrapolando la vocazione al dettaglio anche a volte dotto come la citazione contenuta nello specchio convesso di tradizione fiamminga su cui si tuffa la ripresa come se dovesse cercare cosa c'è dietro la superficie riflettente del quadro di Van Eyck in cui per la prima volta nella storia dell'arte occidentale si include la rappresentazione dell'altro punto di vista per consentire allo spettatore di immedesimarsi maggiormente con chi ha dipinto la scena: infatti da qui attacca una perlustrazione circolare della stanza. Un riferimento confermato dall'evidente citazione di Vermeer al momento in cui Martha comincia a scrivere quella lettera che accompagna un lungo piano quasi senza stacchi a percorrere tutto il campo, mantenendo nelle parole l'ambiguità, che ci impedisce di indovinare la verità, inferendo interpretazioni erronee - o forse no? - fino al momento in cui la macchina si ferma e ci rivela la donna intenta a completare la lettura di una missiva per conto terzi (primo di una serie di trompe l'oeil sonori). Talvolta il dettaglio rimane buona successione di situazioni completamente narrate per sineddoche: la parte per il tutto in incalzante successione; talaltra assurge a metafora oppure a elemento focale prolettico, in grado di legare le storie e condensarne il significato.
Invece in certi casi, troppi, rimane al di qua dell’ispirazione e si assiste ad uno spot pubblicitario senza il prodotto da commercializzare o peggio ancora a rimasticature di sensazioni visive banali, comprensive di un'incredibile bow window con pianoforte in pieno deserto ed in situazione bellica o ci vengono serviti dialoghi pleonastici come il bagno del giovane mutilato ("Si può essere feriti anche dentro" seguito dalla battutona infelice se rivolta ad un mutilato: "Prendi la vita nelle tue mani").

Emozionante la costruzione visiva, ma soprattutto sonora, dello scoperchiamento della tenda nel deserto: non a caso fa seguito al momento in cui i sensi di Martha vengono occupati da mani che frugano scatenando la passione. La sequenza è bella e alterna dettagli di pelle a campi lunghi, quelli che lasciano spazio soltanto al sonoro sempre più pressante, interrompendo una insopportabile riproposta del solito lazzaretto da "Addio alle armi". Migliore la sequenza precedente il cui andamento era opposto, poiché sono i particolari ad occupare vieppiù lo schermo in cui si alternano la nuca del soldato (ma in realtà le orecchie dell'attendente sono pars pro toto dell'uomo interamente concentrato sul discorso intavolato alle sue spalle), la bocca della petulante cognata e gli occhi della amata: sempre più ravvicinati fino a riempire lo schermo con quelle sineddochi in un cortocircuito ubriacante ben calibrato. Purtroppo l'energia accumulata spicca poi il volo letteralmente inseguendo un piccione in pieno deserto con immagini inopinate di polle d'acqua occupate da una musica ruffiana e altre amenità francamente evitabili, benché sia chiara l'indicazione del trattamento che spesso voleva far emergere la preponderanza del sonoro - in questo caso il fischiettare di Peter - nei raccordi tra le situazioni.
Si sente la mancanza di una figura che faccia l’editing dei film come avviene per i libri, qualcuno che si frapponga tra le ottime intenzioni degli autori e il prodotto, contrassegnato da cadute di tono, consegnato al pubblico e dalla prima stesura sia in grado di fornire un risultato scevro di zavorre e barocchismi inutili (non quelli funzionali di Greenaway), salvaguardando e ponendo in evidenza le gemme, che possono essere il divertissement di piantare un sigaro bruciato con ardore in un buco di finestrino, con chiara allusione fallica, oppure più elegantemente legare la stretta delle mani dei due amanti al porto con i rumori d'ambiente della sfinzetta di Naty (forse ascoltava "Sosta" dei Punkreas?), diluita lungo tutta la sceneggiatura.
Ad esempio l'episodio parigino è debole perché banale: sembra che serva per arrivare a creare una triade di episodi. Bohème, soffitta, sigarette celtique (aggiungono nostalgia: esistono ancora?), musicisti, drammatico (e un po' posticcio) finale: belle scopate, significative senza essere però nulla di erotico. Credo che si volesse soprattutto evidenziare come l'esclusività della passione fa dimenticare tutto ciò che sta attorno e nel primo episodio questo è perseguito con maggior rigore in certi momenti, sfruttando anche certi facili - ma efficaci - tropi (le fragole), che con la loro ricorsività creano omogeneità al racconto (dell'episodio e della struttura che sfrutta uno dei tre come cornice). Invece nel secondo ci sono troppi echi di cose già viste; unica circostanza significativa dell'episodio coincide con il solo momento in cui hanno contatti con l'esterno e lo fanno con complicità esclusiva, fatta di nuovo di tattilità nella metropolitana di una Parigi sotto i bombardamenti. Peccato che ci si debba applicare per estrarre quella sensazione palpabile che invece una buona regia avrebbe restituito immediatamente, come avviene con l'esclusività della musica che li accomuna, forse più della passione.

L'ultimo episodio fa da trait-union ed è originale, non foss'altro per la Torino dipintavi, non caratterizzata affatto, se non per le immagini stranianti, proprio perciò valide universalmente per costellare dei propri tasselli tutte le situazioni e contemporaneamente fare da sfondo all'amore casto della dodicenne Naty, che completa il mosaico di tanti amori, i quali finiscono con il divenire davvero un unico amore fondato sulla preconoscenza. Il dottore pronuncia una battuta rivelatrice: "Più che le belle parole è il modo". Appunto. Il film dimostra intenzioni e immaginazione sopra la media scandalosa dei film italiani e episodicamente si trovano parecchie soluzioni apprezzabili; peccato che si sia voluto diluire un prodotto confezionato dignitosamente con una pletora di luoghi comuni popolari (da fotoromanzo, vista la materia) che finisce con il nascondere sotto violini sognanti persino quella fonè che era l'intuizione di base.