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Il Partigiano Johnny
Anno: 2000
Regista: Guido Chiesa;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 21-11-2000


Il Partigiano Johnny

Il peso della storia (e che storia) tarpa le ali o stimola? Grava sulla libertà della finzione o la rinserra nei lacci del già visto e già sentito? E in un momento come questo, di incertezza, di tendenza a rispondere ai revisionismi con la retorica? Proprio nel momento di un dibattito politico pessimo (e di uno culturale ancora peggiore), il film di Guido Chiesa sceglie l’antiretorica, forse obbligatovi da Fenoglio stesso, e costruisce il "Partigiano" sulla frammentarietà. Per ottenere lo scopo agisce principalmente su due versanti.

1. La costruzione e lo sviluppo drammatico: ti spiazza; prevede sì, specialmente nella seconda parte, un evolvere dei fatti, ma è più che altro un evolvere, un acuirsi, della tensione, non tanto della linearità della vicenda. Un andamento di cui si capisce l’orientarsi, ma dovuto alle spinte drammatiche più che alla consequenzialità degli eventi. Un andamento tutto fatto di accumuli e iterazioni, che potrebbe durare un’ora in più o una di meno.

2. All’interno di questa costruzione, il montaggio: improvvise accelerazioni, anacoluti, ellissi e squarci lirici, magari fatti di pochi fotogrammi. Agli attacchi sul movimento – anche affastellati in rapida successione – fanno riscontro fugaci paesaggi, sempre freddi e slavati per l’ottima luce di Gherardo Gossi, a volte non colori, ma un colore, un verde scuro più il nero (il momento di maggiore luminescenza, una delle poche volta che appare il sole, coincide con il momento più angosciato, la scoperta della baita razziata e violata, della donna con un ragazzo reso ebete; il sole ritornerà a salutare con dignità un caduto, a rendergli omaggio, quasi che al culmine della distruzione e della violenza si cominci a vedere la fine di tutto). Così si sospende quella narrazione che già era frammentata. Per poi riprenderla, subito più nervosa.

Conseguenza di questa impostazione: la dimensione interiore del personaggio Johnny ne esce rafforzata, sia pure nella propria scarsa leggibilità: perché neppure Johnny sa quel che vuole. Questo è il suo fascino, la sua anti-retorica, così necessaria in questo momento. A ogni episodio di supposto eroismo subentra il bisogno di ripiegamento (e chi ha conosciuto dei partigiani veri sa quanto fosse vero questo sentimento: mica ci si improvvisa a decretare le fucilazioni; passi per gli scontri a fuoco, in cui è questione di sopravvivenza, ma le decisioni a freddo, di vita e di morte, hanno lacerato fino alla vecchiaia anche i personaggi più amabili e moralmente ben carrozzati: anche di qui viene la loro difficoltà di dialogare con i figli). È un vero e proprio bisogno di intimità, che si fa strada fin dalla casa dei genitori, e si reprime nei luoghi della guerriglia, dove per definizione l’intimità è negata.

Però il film, a questo punto, evita il rischio in cui cade quasi tutto il cinema italiano, quello cioè di affidare alla sceneggiatura (e in pratica ai dialoghi) l’espressione dei valori e delle idee. Qui siamo invece al cinema, fatto di gesti, di scarti (il fisico dinoccolato di Dionisi aiuta), di ricerca da parte di una macchina da presa selvatica, di una tana: dove capita, dove occorre, con quel che capita, una tana di libri o di sterpi. E l’apporto della musica (che Kezich trova bella ma un po’ ingombrante) serve anch’esso a sottolineare, a distanziare, a farti assumere le sequenze di combattimento come sequenze, come manufatto, come lavorato. Siamo al cinema e lo vediamo, come lo vedevamo nei Resnais di "Muriel" e "La guerra è finita", le azioni e le sue progettazioni, al quartier generale piuttosto che nell’imminenza o nell’improvvisazione per la pura sopravvivenza sono scampoli parziali di realtà. Una regia che restituisce attimi di provvisorietà, vissuti però come se ognuno di essi fosse risolutivo e costitutivo di un’identità. Slanci e tensioni che investono tutta la persona, nel fisico e nelle idee, che rendono gli individui credibili o meno, che li spingono verso qualcosa di cui a tratti sfugge il senso. Un senso che invece è stato ben chiaro e radicato nei momenti in cui non si lasciava travolgere dagli eventi. Una resistenza anche contro il non-senso, oltre che contro i nazifascisti. Forse anche per questo Johnny si cerca dialogando con la cagna, di fronte alle colline; per questo, dal buio, dopo uno scontro, insieme a due compagni, dallo schermo nero viene fuori una voce: "raccontiamoci com’è andata".