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I ragazzi del Marais
Anno: 1999
Regista: Jean Becker;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 13-05-2000


I Ragazzi del Marais

LES ENFANTS DU MARAIS

Regia: Jean Becker
Sceneggiatura: Sebastien Japrisot
Soggetto: tratto dal libro omonimo di Georges Montforez edito da Gallimard
Fotografia:Jean-Marie Dreujou
Scenografia: Thérése Ripaud
Montaggio: Jacques Witta
Suono: Guillaume Sciama, William Flageollet
Musica: Pierre Bachelet
Costumi: Sylvie De Segonzac
Interpreti:
Jacques Villeret ................... Riton
Jacques Gamblin ................. Garris
André Dussolier .................. Amedée
Michel Serrault ................... Pépé
Isabelle Carré ..................... Marie
Éric Cantona ....................... Jo Sardi
Suzanne Flon ....................... Cri-Cri anziana
Merlène Baffier ................. Cri-Cri bambina
Romain Dreyfus ................. Pierrot di città
Jacques Chaliier ................. Pierrot di campagna

Distribuzione: Keyfilm
Provenienza: Francia
Anno: 1999
Durata: 115'

Riesce sempre a stupire la capacità dei cineasti francesi di ammantare i migliori propositi con un’atmosfera nostalgica che annacqua anche le formulazioni più anarchiche (si citano i padri fondatori del pensiero libertario come se fossero bucoliche poesiole da pronunciarsi, come Titiro, sotto faggi ombrosi). Qui si riesce addirittura a incorniciare in un dorato mondo di buoni sentimenti l’intransigente scelta di rifiutare le convenzioni borghesi della Francia, uscita con atroci traumi dalla Prima Guerra Mondiale – un aspetto ben descritto dall’incontro tra il nero e il giovane spirito libero, ai quali basta nominare le località tristemente famose (Verdun, La Marne, …) per tornare con gli occhi all’orrore e al cameratismo da tempeste d'acciaio quasi jüngeriano. Un'indulgenza al melenso che, anziché analizzare quel mondo perduto, sembra attenta allo stereotipo della sonnolenta ma autentica provincia solidale. Infatti il compagnone macchinista del treno (le ferrovie furono un grande bacino anarchista, ma il film sceglie di non avere la carica dirompente "di una locomotiva come una cosa viva lanciata a bomba contro l'ingiustizia", si limita ad esaltare il tenersi fuori dalla società), che carica gratis e indica dove scendere, l’anziana vedova pronta a disfarsi di ogni ricordo a favore degli altri sono macchiette di costume di fronte alle quali sorridere; imbarazzo invece è quello che trasmette il pessimo Éric Cantona, che dovrebbe recitare la parte del pugile, il cui calco è depositato in serie di comiche dell'epoca del muto, volutamente citato per accentuare collocazione nell'immaginario degno del Fronte Popolare degli Anni 30 francesi, ma con risultati involontariamente ridicoli.


All'opposto André Dussollier è un attore esperto che però sembra strafare nel tratteggiare l'anima limpida del benestante Amedée, anche lui innamorato della propria libertà, fatta di piccole trasgressioni: i libri, il jazz e il rifiuto di una sbiadita Horténse che gli volevano imporre. Ma ancora peggiore risulta la serie di luoghi comuni inanellati senza soluzione di continuità: dal vecchio, cresciuto nella palude – luogo per lui mitico della perduta felicità – e divenuto ricco, fino alla raccolta delle lumache; si tratta di un repertorio volto a perpetuare l’immagine dei valori su cui si fondava la vieux douce France, irrimediabilmente perduta proprio da quella generazione di squali, in fondo attratti dall'autoritarismo di un futuro sicuro premier sceso in campo in quegli anni con programmi populisti: Hitler.

Sviscerando i presupposti e quindi l’impianto del film si comprendono anche meglio i motivi che mantengono la società francese abbarbicata alle proprie radici: affascinanti afflati di libertà adagiati nella dolcezza del paesaggio, rilassante e adatto all’accezione di anarchismo veicolata dall’ingenuo autore: "Conosco un posto dove niente è proibito".

Quello smaccato rimpianto dell’age d’or trova una legittimazione dalla formula adottata: l’intero film risulta essere un flash back di una anziana signora che di fronte agli scempi operati nel tempo (ma scopriremo solo alla fine l’elemento scatenante quella bolla di nostalgia) rinvanga la sua infanzia a partire dal primo momento a cui può risalire il ricordo di un bimbo: i suoi quattro anni. I primi Anni 20 ne fanno un testimone tra i più triti e risaputi, irritante nella sua somiglianza, segno che rimarca l’immobilità compiaciuta con la vedova, peggiorata dalle sue memorie sulla cagionevole salute da romanzo per l’infanzia. Da questo presupposto sarebbe plausibile la distorsione della memoria, ma mentre in Proust (e Ruiz) questa operazione arricchisce il racconto, qui sembra impoverirlo per sottrazione di immaginazione: l’esatto opposto della Recherce. Il ricordo volutamente mediato – operazione esplicitata direttamente dalla vecchia narratrice – da quelli che sono i luoghi comuni di una successione che ne fa un compendio esaustivo e dunque le situazioni non potevano che essere quelle illustrate, come se sfogliassimo un rotocalco edulcorato risalente a quei tempi. Tutto ciò è sottolineato da una fotografia sempre molto patinata, solare e per converso caratterizzata dai toni ghiaccio degli ulteriori flash-back inscatolati nel primo salto indietro da cui muove tutto, confermando in queste più brevi riproposte la vocazione a rivolgersi esclusivamente indietro nella contemplazione del tempo trascorso: una prima volta è l’eroe del racconto, figura positiva all’eccesso, un po’ misterioso, molto affascinante e tenebroso, i cui trascorsi di sbandato ex soldato si intrecciano con la palude grazie al fatale incontro con un vecchio rievocato nel ricordo; in seguito è la volta del suo amico con il suo chiodo fisso, il momento in cui la moglie lo abbandonò; da ultimo il vecchio ritorna alla sua palude di un tempo.

Alcune preziose frasi costituiscono una collana di perle relative al rifiuto del lavoro, senza riuscire a farle emergere dal troppo miele del ricordo: "Non costringere i uoi figli a lavorare, potrebbero farci l'abitudine"., frase tratta dal fantomatico libro di massime dell'amico di Riton, il padre della narratrice. La figura del vecchio che abitava la capanna poi occupata dal sicuro e affascinante Garris, a cui il vecchio morente nel gelo della fotografia invernale dell'immediato dopoguerra riassume la propria vita libera dicendo: "A me la palude non ha mai fatto mancare nulla e non sono mai stato sotto qualcuno". La vezzosa democratica che valuta i datori di lavoro: "Né gentili, né poco gentili: sono padroni", sono un'altra categoria dello spirito e dello sfruttamento, lontani nella vincente grettezza rispetto alla fierezza – molto retorica – dell'eroe che restituisce la regalia spiegando: "se non li restituissimo non saremmo morti di fame, ma pezzenti.

Il problema del film è facilmente illustrato dall'uso che si fa in esso del vino: è edulcorato. Ogni occasione è buona per stappare una bottiglia, ma sembrano i raduni conviviali della pubblicità: non c'è lo spirito enologico. Tutti appaiono impacciati – non ebbri – come se fosse un rito, mentre nelle campagne non solo francesi, ma anche della provincia italiana lo spirito in bottiglia è un genio che consente ben altre emozioni. Forse il vino usato nel film era adulterato o fatto con le mele (ma la valle del Rodano non è la Normandia del Sidro e del Calvados).