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Gocce d'acqua su pietre roventi
Anno: 1999
Regista: Francois Ozon;
Autore Recensione: maqroll
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 13-11-2001


Gocce d'acqua su pietre roventi - F. Ozon, RWF

 

regia
François Ozon

sceneggiatura
François Ozon
tratta da Tropfen aus heissen Stein
di Rainer Werner Fassbinder

fotografia
Jeanne Lapoirie

montaggio
Laurence Bawedin

produzione
Olivier Delbosc, Christine Gozlan, Kenzô Horikoshi, Marc Missonnier, Alain Sarde

provenienza: Francia
distribuzione: Key Film
anno: 1999

"Una piccola cosa un giorno, un piccolo contrasto, ma da quel momento più nulla è stato in comune. Solo contrasti"

interpreti:
Léopold . . . . Bernard Giraudeau
Franz . . . . Malik Zidi
Véra . . . . Anna Thomson
Anna . . . . . . Ludivine Sagnier

¨Noi abbiamo solo sognato la felicità¨

 

 


Ormai il cinema francese adotta le stampe – ma in particolare si può rubricare la tendenza sotto la voce nostalgia – per introdurre a un’epoca passata nella quale si nasconde ancora qualche sollecitazione stimolante. Rohmer adotta le stampe d´epoca per cominciare il suo studio di un periodo di rivoluzione, Ozon recupera stampe degli anni settanta per sondare nel suo intimo lo stato di elaborazione dell´insegnamento di Rainer Werner Fassbinder.

Un testo in cui si mescola il claustrofobico allestimento di un interno che porta alle estreme conseguenze il kammerspiel con le liberazioni dallo stereotipo affidato all´emersione dell´assurdo atroce, del jeu de massacre tipico dei dialoghi dell´insuperabile tedesco. Il melodramma (non è un caso che il titolo del libro letto da Franz – e secondo la prassi 70s è sottolineato – è Liebe ist stärker als der Tod, ovvero L´amore è più forte della morte, parodiato da Fassbinder nel 1969 nel film Liebe ist kälter als der Tod) si confonde con la tragedia attraverso lo spietato ritratto dei rapporti tra individui, ma soprattutto una messa in scena della impossibile convivenza per il venire meno del desiderio, una libido che condiziona in negativo la possibilità di essere felici: "Noi abbiamo solo sognato la felicità; qui forse l´ho provata, ma poi improvvisamente non facevo più nulla che andava bene". Così si esprime Franz, diciannovenne che impariamo a conoscere dai suoi primi tremori omosessuali provati per la seduzione di Leopold (Bloom, nella allusione fassbinderiana al personaggio joyciano, uomo a tutto tondo impegnato a riconoscere il proprio desiderio), cinquantenne, la cui tela si tesse anche attraverso il classico movimento circolare della cinepresa che ruota attorno alla preda.

Ma Ozon non si limita a rievocare Fassbinder e la feroce lucidità nel mettere in scena le "roulette cinesi" e i travagli dei rapporti, non gli basta mostrare il bisogno di sperimentare sempre la novità, di "farsela" carnalmente, facendola passare attraverso il corpo e il sesso dirigendo un ottimo Leopold (Bernard Giraudeau) attorno alla cui libido tutto ruota, fino a svelare la necessità più volte ribadita degli altri irretiti dal suo adrenalinico bisogno di perseguire ogni passione con un ardore che si estende alle sue ‘vittime´; Ozon ci imbandisce un insieme di ricordi filtrati da una particolare pellicola fassbinderiana che deforma il reale e trasforma gli oggetti (l´enorme asciugacapelli per tutti) e gli ambienti (la camera da letto più volte penetrata a conclusione dei 4 quadri e un epilogo, a scombinare il finale dell´atto precedente con bellissimi corpi aperti in attesa trepidante di fremere per carezze di "sogni" solo immaginati) in simulacri di un´epoca, o meglio in tasselli utili per ricostruire la propria memoria di quello che erano i temi, le emozioni, i contrasti, sempre duplici e perciò – allora come nel film di Ozon – danno luogo a una profusione di specchi e doppie immagini compresenti sullo schermo. Ed è proprio durante queste inquadrature dall´esterno della casa – uniche uscite dello sguardo, sempre comunque centrate verso l´interno su personaggi che non possono esistere al di fuori – che le figure sono tristemente sfumate dal cambio di focale che evidenzia le gocce del titolo, rilevando l´impossibilità di abbracciare simpateticamente i personaggi pur avendo la percezione di vedere rappresentata la propria condizione umana, solitaria e disperata per la momentanea felicità esperita e perduta, non ricostruibile al di là della cortina di gocce sui vetri. Il diaframma più evidente è quello dello studio, quando Franz prende per la prima volta la decisione di andarsene: Leopold è al di là della porta, lo vediamo deformato dal vetro, lontano, irraggiungibile.

Come avveniva anche nei film di RWF la meditazione sul personaggio non è scevra della valutazione dell´essenza di creatura forgiata da altri, di gesti dettati, di battute da porgere secondo un piano ("Non è possibile dimenticarlo… Sono una sua creatura,… mi ha disegnato tutto. Mi dava la sensazione di esistere per la prima volta; fino al giorno in cui il suo desiderio è svanito", la parte di Véra compendia realmente il mondo degli abbandoni di Fassbinder, delle improvvise mancanze di senso per il mondo, che negano la domanda iniziale fatta a Franz: "I motivi per cui la vita vale la pena"); e anche qui è sottolineato più volte lo stato di burattino, corpo usato, di cui però emergono struggenti i sentimenti, la pulsione verso la felicità, provata momentaneamente sia da Franz, sia da Vera (una bellissima e intensissima Anna Thompson che evoca la tragica figura di Jeanne Moreau in Querelle e anche lo stesso senso di accantonamento), transessuale per amore, o meglio per difendere il ricordo di quella passata felicità, cambia sesso per essere ancora una novità per Leopold. Ciascuno esiste per la felicità ("Tu sembri uno che se la spassa"), ma a causa della irrefrenabile insoddisfatta ricerca dell´autoritario conduttore delle danze (metaforica la samba ballata dai quattro rivolti verso il pubblico, vere marionette), a nessuno è dato trattenerla, fino al gesto finale che sembra quasi l´autore avesse preconizzato proprio a diciannove anni, quando scrisse la piéce.

È concesso anche un confronto con un altro regista francese, Chereau in Intimacy usa i corpi in modo materico, in pose che vengono ricalcate qui, innalzandole a un livello meno estetizzante e più dirompente per quello che è la libido messa in scena, a cominciare da quel tropo che è la patta in evidenza (dai film di Kenneth Anger in poi un ‘must´ del cinema omosessuale), quando ormai l´adescamento è avviato, per arrivare alla scopata potentemente coinvolgente per i corpi tra Anna e Leopold, ma contrastata dal dialogo per nulla erotico, a sancire la divisione tra chimismi fisici e legami intellettivi.

Non sono giochi di luci, come nel film di Chereau (nonostante le lattee tette di Anna che sfidano la gravità, dirompenti in più momenti grazie a un´illuminazione che ne premia la rotonda esuberanza, ma senza avere quella palpabilità di Intimacy, piuttosto proponendo la parte per il tutto di un personaggio stereotipato, creta nelle mani del demiurgo Leopold, sesso da consumare per la sua priapea fame mai soddisfatta), perché le luci in Fassbinder lampeggiavano aspre nel Berlin espressionista o cadevano su Veronika Voss nel bianco e nero melodrammatico, ma potevano essere piatte in Satansbraten, come qui, quando lasciano spazio ai corpi, avvolgendoli integralmente da quei simulacri che sono, animati quando indossano un impermeabile desunto da un sogno adolescenziale da collegio ("Stava sopra di me come se fossi una donna… E nel sogno probabilmente lo ero"); o quando si mettono in posa – magari dietro un diaframma fatto di vetro o porte a vetri a scomparsa – e dialogano guardando allo spettatore o volgendogli entrambi le spalle, uno straordinario rifiuto del campo/controcampo, efficace nella espressione e sarcastico nei confronti del linguaggio (anche se forse non è voluta la sigaretta appena spenta, che riappare nel finale di partita a ludo, il gioco come metafora dei ruoli che il "jouer", il recitare, impone). Giochi di ruolo che ripropongono lo scambio del meccanismo della fine degli atti ribaltati, in cui il letto è popolato in modo ogni volta diverso, punta dell´iceberg dell´umorismo nerissimo che permea l´intero testo e che culmina nel dialogo con la madre del giovane avvelenatosi e che le annuncia la propria morte con toni disincantati; fulminante nella sua quotidianità per un momento così tragico stemperato dalla noncuranza con cui ormai si affronta la morte avendo perso gusto alla vita: "Pronto, mamma? Mi sono avvelenato… No, non c´è più niente da fare; no, non serve venire qui". E poi scopriamo che la reazione della madre è stata un semplice: "Buon viaggio".

La ricerca di Franz si discosta da quella tesa al consumo sfrenato delle passioni (e delle persone) di Leopold: egli si strugge nel recupero dell´evento minimale da cui è sfiorito l´incanto: "Una piccola cosa un giorno, un piccolo contrasto, ma da quel momento più nulla è stato in comune. Solo contrasti". E da quel momento ricostruiamo la pletora di diaframmi e divisioni anche fisiche che costellano il film, in cui Leopold, incarnazione del desiderio, non ha bisogno di nessuno, ma tutte le sue creature hanno bisogno di lui. Una sorta di Addiction, e forse non è così distante Abel Ferrara, che arriverà ad inaugurare il Torino film festival tra due o tre giorni.