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Abo, une Femme du Congo
Anno: 1999
Regista: Mamadou Djim Kola;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Congo; Mali; Burkina Faso; Belgio;
Data inserimento nel database: 01-04-2000


Abo, une Femme du Congo

Abo, une Femme du Congo

di Mamadou Djim Kola, Congo, Mali, Burkina Faso, Belgio 1999, 54´

10° Festival Cinema Africano

Milano 24/30 marzo 2000
regia di .......................... Mamadou Djim Kola
sceneggiatura di  ...................... Jan Vromman
fotografia di  .................... Patrick Bernard, Oumaou Ouedraogo, Johnny Huysser
montaggio di  ..................... Johnny Housser
suono di  ......................... Jean Grégoire Mkhitarien
musica di ...................... Studio Wanda Mali, Oumou Sangaré, 
Massambo Welle Diallo, Chris Jons
interpretato da Mahamat-Saleh Haroun, Garba Issa, 
Aicha Yelena, Mahamat-Saleh Abakar prodotto da ....................... Regards Croisés, Valparaiso Production distribuito da .................... Regards Croisés
Florencia Martini 30, rue Lambert Crickx 1070 Bruxelles - Belgio
tel: 322-5211 720 fax:322-5219300 e-mail: [email protected]

Filmografia:

1971 Le Conflit
1973 Les Sang des Parias
1976 Cissin
1979 Kognini 1992 Toungan les étrangers 1993 Yennenga

Un documentario militante come non se ne fanno più da quando gli eroi della decolonizzazione citati in questa pellicola sono stati precocemente uccisi e lo strapotere delle potenze extra-africane hanno ripreso il sopravvento sugli afflati di liberazione del continente.

La struttura riprende il classico viaggio di apertura che porta l'azione in territorio africano (come avviene in Bye Bye Africa) a partire da una capitale europea, dove si è decisa l'idea del film, che nasconde un'altra consolante certezza: il ruolo della donna impegnata in Africa si avvale di persone risolute, con il coraggio di raccontare le loro esistenze. Per fare ciò l'autore riunisce tre personalità di spicco della cultura sub-sahariana: Léonie Abo (in lingua swahili ci rivela nel film che significa "lutto), moglie di Pierre Mulele, ministro dell'educazione del governo congolese di Patrice Lumumba, assassinato nel 1968, alla quale è dedicata la pellicola, ma non per essere coniuge di un illustre vittima del colonialismo, Oumou Sangaré, cantante maliana celebre, chiamata ad interpretare con la voce i siparietti dedicati alla illustrazione canora dell'avventurosa vita dell'intervistata (il cui aspetto complotta a farla ritenere senza età), mentre Bijou Ilonga, l'attrice del Congo più famosa, dà corpo a quegli spezzoni che restituiscono fiato alla narrazione della Storia, facendo entrare nel mito del canto i personaggi di cui Abo parla e che sono già protagonisti di una Storia di liberazione.

É una classica intervista alternata a filmati d'epoca e fotografie in bianco e nero, ma vuoi per i siparietti canori, vuoi per la familiarità che si crea subito tra le donne coinvolte nell'operazione di memoria, la componente didattica e retorica diventa un'inevitabile presenza che non intacca la sensazione che stiamo incontrando una donna eccezionale, una guerrigliera, e mentre il suo racconto prende corpo si riconosce nella sua figura il riferimento di film come Flame (Ingrid Sinclair, Zimbabwe, 1996): donne che imbracciando i fucili hanno imparato a lottare anche contro i matrimoni combinati (e su questo argomento nella rassegna di quest'anno spicca pure il tunisino En Face), la gelosia soffocante del possesso maschilista ... forse no ancora contro l'incensamento eccessivo del racconto edificante o della frase inutilmente ampollosa ("Per tendere un arco ci vanno due mani e quella mancante era quella femminile").

Le fasi del racconto più avvincenti risultano essere quelle relative alla lotta partigiana. Gli episodi minimali trovano parentele nei lavori di Paolo Gobetti sulla "nostra" guerra partigiana: Nuto Revelli che confessa di aver mangiato la marmellata di fronte a tutto il suo manipolo in Le Prime Bande (1984) fa il paio con la vicenda del pollo fatto a pezzetti e diviso nel rancio del racconto di Abo, che rievoca l'inizio della fine della lotta partigiana con il rinfocolarsi delle divisioni tra clan: "Il male peggiore è il tribalismo", che viene associato al ricordo della cacciata dalle bande di Lumumba di coloro che erano sorpresi a rubare (che avrebbero ingrossato le fila di Mobutu, armato dall'occidente per distruggere gli africani in una lotta fratricida). Lavorando molto bene sul montaggio si recuperano frasi e immagini di repertorio e di fiction capaci di infondere nello spettatore le emozioni relative all'imboscata in cui morì Mulele, con musica e canzoni su testo orale e concitazione dell'azione nell'umidità buia del fiume, con la voce di Abo appena incrinata dall'indignazione che ricorda come nel 1968 le truppe di Mobutu avessero costretto persone a stuprare la propria madre, mutilandoli poi. Un documento che meriterebbe di iniziare un archivio della resistenza congolese, come Le Conflit (1971), il primo film di Mamadou Djim Kola fu anche il primo film burkinabé mai realizzato.

Abo probabilmente non è riuscita a testimoniarlo direttamente con la sua voce nel documentario, anche il suo coraggio trova limiti nel pudore che sopraffà la scorza di durezza della vecchia combattente, ma la voce off riporta nel finale del film la fine riservata a Pierre Mulele: "Gli tagliarono i coglioni, le braccia, i piedi e poi gettarono i resti nel fiume Congo". La scelta di far narrare l'intera sua vita direttamente, mostrando ridondanti immagini che non aggiungevano nulla all'oralità (anche delle frequenti canzoni), ma servivano a incidere nella memoria dello spettatore i passaggi fondamentali dell'esistenza di Abo e Mulele, è da ascrivere all'intento didattico del film; tuttavia il velo di pietà che scende sulla fine del marito ottiene l'effetto per contrasto di evocare ancora di più la ferocia di Mobutu, proprio per l'assenza sia di immagini, sia della voce (e del volto) di Abo: l'atrocità supera le possibilità di narrare, rimane soltanto la fredda enunciazione dei fatti documentabili, senza affabulazione, come avviene di fronte a qualunque campo di sterminio che annienta la capacità di argomentare con la sua enormità.