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Éloge de l'amour - Elogio dell'amore Anno: 2001 Regista: Jean-Luc Godard; Autore Recensione: Andrea Caramanna- Provenienza: Francia; Data inserimento nel database: 15-06-2001
Elogio dell'amore
Éloge de l'amour - Elogio dell'amore
Regia e sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Fotografia: Julien Hirsch, Cristophe Pollock
Interpreti: Bruno Putzulu, Cecile camp, Jean Davy, Françoise Verny, Philippe
Lyrette, Audrey Klebaner, Jeremy Lippmann
Origine: Francia, 2001, col e b/n, 98 min.
$align="left"; include "image1.php3"; ?>Nella babele linguistica risiede uno
scacco (interpretativo?), ma anche l'impronta a partire da, con la quale
costruire un altro discorso. La parola "elogio" che stimola
l'assonanza con logos, deriva etimologicamente da una forma verbale latina
"elogiare" che significa "descrivere in breve", da cui
"elogium" corrisponde a "breve formula",
"sommario". L'approccio godardiano è senz'altro questo
"sintetico" avvicinamento-avvistamento di un universo complesso le
cui derive sono anche i suoi scarti, i resti, dei corpus filosofici citati . Le
parole, anche le più brevi, imprimono una direzione, un significato in alcuni
casi troppo netto, perfino contrastante con quella diluizione continua dei
materiali filmici, narrativi e non, figurativi o semplicemente segni (la
seconda parte del film ne è maggiormente percorsa). Possiamo riferirci ad
esempio alle accuse dirette a quella potenza terrificante dell'immaginario, gli
Stati Uniti d'America che procedono sistematicamente all'eliminazione degli
immaginari altrui. Vale a dire sottraggono alla stessa parola-segno quella
parte semantica che le appartiene, potremmo dire, di diritto per storia
vissuta. Prendiamo lo svuotamento della parola "america" e il suo simultaneo
riempimento. America del Nord del Centro e del Sud diventa solo Stati Uniti
d'America. Intere nazioni sono eliminate a favore di una identità fittizia la
statunitense, ma - Godard ironizza a lungo su questo punto - il termine
statunitense è davvero improprio: qual è la nazionalità dei cittadini degli
Stati Uniti d'America? Certo non canadesi né messicani. Insomma non esiste una
parola che corrisponda, così come è naturale che la parola indicante la
cittadinanza esista per la maggior parte dei paesi del pianeta. Il parlare
dunque corrisponde in Godard sempre a un dire che rivela, che ha pensato e
fissato il discorso su una interpretazione che ci appare intensamente veritiera
se non altro per la numerosa serie di operazioni semantiche che tendono a scoprire,
nel giuoco fitto di decostruzioni, il nervo nudo o almeno il cuore di "de
quelque chose" aggettivo indefinito più sostantivo, che può dire allo
stesso tempo qualcuna o qualunque cosa. Che poi si possa non essere d'accordo
con Godard è un altro discorso ancora. Quello che invece stupisce è come Godard
riesca a dire le "cose" attraverso un processo di (de)costruzione del
senso ineccepibile e meraviglioso. Come hanno già commentato i "Cahiers du
Cinéma" è davvero curioso come il "significato" profondo del
film ci sembra di averlo colto perfettamente, di fronte alla flagrante
moltiplicazione ed assenza di "ricostruzione lineare" del film, che
naturalmente non può essere fatta per la via narrativa.
$align="right"; include "image2.php3"; ?>Il cuore del film (accogliere
un'ipotesi con Godard tuttavia è più saggio… ) potrebbe essere la Storia anzi
le storie con la s minuscola. Insomma le histoire(s) godardiane così come sono
state sviluppate nel corso di questi ultimi dieci quindici anni. Si tratta di
una visione in cui i punti di riferimento sono fortemente condizionati da
vicende autobiografiche, come se la storia di Godard si celasse tra le decine
di storie accennate e d'altra parte la genesi tormentata, la lavorazione
intermittente di questo film ne sarebbero la prova più eclatante. Godard stesso
afferma nella lunga intervista nei "Cahiers du Cinéma" (maggio 2001,
n. 557): "Non capivo più chi conducesse la danza…se ero io in rapporto al
film o il film in rapporto a me". Una sorta di scrittura automatica che si
produce in base ai piccoli grandi spostamenti del set e alle indecisioni,
scelte, intuizioni che si appalesano misteriosamente. Eppure Godard fa
esplicito riferimento alla Resistenza. Ma il periodo storico appare spostato in
avanti, già rielaborato e pronto per essere applicato ai nostri giorni. Si
tratta di una elaborazione concettuale della resistenza, che diventa un
sentimento specifico, vale a dire si produce in rapporto ai materiali-tracce
(come le targhe affisse in molte strade cittadine che, spesso anonime, sono il
più tangibile segno di un processo che si scrive, del segno che s'imprime e si
mostra), agli eventi coi quali entra in contatto. La resistenza godardiana da
dimostrazione teorica si traduce in prassi filmica. Elogio dell'amore ha
così i tratti di un discorso profetico ed universale fatto di luoghi,
d'immagini e parole, e perfino la storia del pensiero figurativo che
probabilmente si è conclusa nel nostro secolo, forse spinta dalla potenza del
cinema. Chi volesse approfondire l'argomento può andarsi a leggere il dialogo
tra Godard e Debray contenuto nel secondo tomo Jean-Luc Godard par Jean Luc
Godard (1984-1998) edito dai "Cahiers du Cinéma" e curato da
Alain Bergala.
Nella spinta verso la cosiddetta fine del racconto Godard ha certamente
mostrato in modo chiaro l'aleatorietà della sceneggiatura, peraltro il film
inizia laddove la sceneggiatura già scritta (si trova anche questa nel tomo
succitato) è stata abbandonata perché è ormai impossibile tentare un progetto
di messa in scena attraverso i codici narrativi tradizionali. Il racconto così
giunge alla totale paralisi. Forse anche in ragione della impossibilità di
partire da un punctum, un'idea che definisca l'età adulta. È mostrata
disperatamente la condizione terminale di ogni processo di definizione in quei
brevi passaggi nei quali gli attori cercano di essere personaggi e identità
"ferme", entità stabili collegate ad un'età precisa della vita umana,
ma la produzione del mondo artificiale appare come un'ulteriore confusa
percezione tra le centinaia di percezioni e prospettive possibili e
realizzabili o un'assurda ipotesi d'immobilità storica.
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