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Due giorni senza respiro - Two days in the valley
Anno: 1996
Regista: John Herzfeld;
Autore Recensione: Luca Aimeri
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 05-11-1997


Two Days in the Valley (Due Giorni senza Respiro), scritto e diretto da John Herzfeld. Con Danny Aiello, James Spader, Jeff Daniels, Teri Hatcher, Eric Stoltz, Glenne Headly, Peter Horton, Marsha Mason, Paul Mazursky. Usa, 1996.

Due giorni nella Valley, Los Angeles, all'insegna della black-comedy.
Secondo regola: il nero gioca di sponda in un canyon comedy sospinto da humor al sangue o comunque acido, e gusto dell'assurdo; le storie si moltiplicano a ragnatela per poi convergere al centro secondo una logica casuale e ferrea al contempo; i personaggi-cliché si svelano attraverso la parola, tendendo al monologo e all'autopresentazione; capovolgimenti di sorte improvvisi e bruschi plot-points a catena accelerano sino a culminare nel finale a scatole cinesi... Da questo punto prospettico, per tracce sommarie, "Due Giorni senza Respiro" non riserva sorprese: rappresenta un prodotto medio, facilmente incasellabile, riconducibile, senza troppa fantasia, a modelli riconoscibili e a tendenze ormai consolidate (non ultima, quella dei registi esordienti - in particolare ex-sceneggiatori, come in questo caso - a confrontarsi con tale specifico genere). E' tuttavia un giudizio valido solo a colpo d'occhio complessivo: in realtà, Herzfeld riesce a zavorrare (in senso positivo) quello che sarebbe potuto essere un leggero esercizio di scrittura, rendendolo se non particolarmente significativo quantomeno interessante. Gli elementi che costituiscono tratti positivi dell'operazione risiedono nella dilatazione dell'intreccio e nella caratterizzazione dei personaggi. La ragnatela di segmenti narrativi cui accennavamo in apertura è espansa al limite: l'effetto iniziale è quello di un film corale, à la "America Oggi" o "Grand Canyon", per quanto a tinte forti; personaggi e realtà distanti tra di loro, difficilmente collegabili in prima battuta, parallele non convergenti; si tratta inoltre di porzioni di racconto rilevanti... una sorta di collage di cortometraggi a situazione. Solo verso la metà del film l'intreccio inizia a prendere forma, le tessere si combinano... e solo oltre, ancora dopo, inizia il vero gioco concentrico: tutto ri-torna, si assembla in un'unità, si compone. Ma sono talmente distanti presentazione e ri-presa di personaggi-situazioni-ruoli che ha qualcosa di magicamente ineluttabile, quasi oltre le logiche un destino beffardo. La texture, a distanza, alla luce dello svelamento del gioco, appare fittissima: ma è di fatto una maglia dilatatatissima. In tale texture, inoltre, Herzfeld apre, volontariamente, delle smagliature: sono micro-situazioni / micro-storie che sfuggono sia alla logica complessiva di impostazione-recupero che domina la struttura, sia ad uno sviluppo di sottotrama (se può aver senso parlare di sottotrama in un lavoro che di fatto è costituito da sottotrame che si ricompongono, a poco a poco, in un corpo di realtà singole attorno ad un centro pretestuoso). Sono situazioni minori che rimangono sospese, non conchiuse, e forniscono una chiave di (ri)lettura possibile, evidenziando i tratti minimalisti che caratterizzano anche i tasselli maggiori della storia - tratti che inevitabilmente annegano nella struttura "massimalista" (per dirla con un termine orrendo, ma che rende l'idea di qualcosa di iper-costruito, ad effetto). E sono ancora queste "crepe", spiragli, che gettano un ponte con il secondo aspetto distintivo e positivo del film di Herzfeld: la costruzione dei personaggi. I molti, e bravi, protagonisti di "Due Giorni Senza Respiro" hanno come denominatore comune la stanchezza: in perfetta linea con la galleria di personaggi del noir tradizionale, sono anti-eroi, perdenti, disillusi, falliti, solitari... connotati di quella patina di stanchezza e grigiore che solo chi ha familiarità con la morte e la sconfitta può avere (le sequenze ambientate nel cimitero militare sono paradigmatiche). La maggior parte dei personaggi sono vecchi anagraficamente; gli altri sono vecchi interiormente; unica eccezione: il trio al centro del plot, belli e vuoti come automi, gelidi come la Morte. La black-comedy può apparire come un semplice pretesto, a questo punto. Potrebbe essere l'ottica giusta: a confermarlo è il ritmo calmo e la linearità con cui Herzfeld affronta registicamente la sceneggiatura, a dispetto della formula del "genere" secondo la quale all'arguzia di scrittura (leggi, sceneggiatura) corrisponde, sul piano formale, una ricercatezza spregiudicata. Black-comedy sui generis, che può idealmente fare il paio con un'altra operazione particolare della stagione quale "Cosa Fare a Denver Quando Sei Morto".