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Dôlé
Anno: 1999
Regista: Imunga Ivanga;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: Gabon;
Data inserimento nel database: 31-03-2001


Dolé
Visto all'12 festival internazionale del cinema africano - Milano

Dôlé

Visto all'12 festival internazionale del cinema africano - Milano


 



Regia:  Imunga Ivanga
Sceneggiatura:  Imunga Ivanga
Fotografia:  Dominique Fausset
Montaqgio:  Patricia Ardouin
Musica:  François Ngwa, Emile Mepango
Suono:  Antoine Deflandre

CAST

David N'Guema,
N'Koghe,
Emile Mepango,
Roland Nkeyi,
Evrand Elle.


Produzione: CE.NA.CI.
Durata: 82'
Anno: 1999
Nazione: Gabon
Distribuzione: Centre National du Cinéma Gabonais,
B.P. 2193 Libreville (Gabon) tel. 24 1 76 11 61
Premi: Tanit d'oro al Festival di Cartagine
Miglior sceneggiatura al Fespaco 2001 di Ouagadougou

S’inizia con una luce che non abbandonerà più lo schermo e un ritmo invidiabile, eppure il più carismatico dei ragazzi del gruppo – Baby Lee – che sta eseguendo un pezzo rap di autentica emarginazione e solidarietà tra amici chiede "più aggressività", e questo è un primo elemento interpretativo che ci tornerà utile per spiegarci l’inversione finale rispetto allo sviluppo edificante che impregna di sé una parte del film.
Infatti subito dopo questo incipit "militante" si direbbe che l’intento registico sia quello di fornire materiali tali da dischiudere un universo che riferimenti occidentali potrebbero collocare tra Molnar e De Amicis; una compensazione – in chiave anche esplicitamente occidentalizzante – di quell’immagine sporca dell’inizio, che appare innanzitutto visiva: tanto che l’inquadratura si apre da quel frame stretto sui volti ripresi con mdp a spalla per andare a cogliere un totale del luogo che ha lo stesso taglio, i medesimi panni stesi e una situazione pressoché uguale a quella di I soliti ignoti; non l’identica luce. La grazia e l’innocenza del gruppo di ladri di Monicelli ha la stessa calibrata necessità di superare la condizione indigente rifugiandosi nel sogno, lì il miraggio dello scombinato colpo (copiato dall’ultimo Woody Allen) e qui incarnato dalla rapina al gratta e vinci (appunto il Dôlé del titolo); a questo stato di grazia si aggiunge, calibrando bene la condizione africana attuale con i vecchi intertesti occidentali, la costante presenza della violenza, che non è solo quella scatenata dalle sempre presenti guardie private, ma anche e soprattutto quella sottile, più psicologica – e deamicisiana – del perfido compagno ricco, che in virtù della sua ricchezza e sicurezza si aggiudica la compagnia della ragazzina (e anche la vendetta proletaria che rimette le cose a posto è poco convinta). Altrettanto uscita dai capitoli più toccanti del libro Cuore pare la fine struggente della madre di Mougler, il protagonista, morta per mancanza di cure, troppo care e che il giovane riuscirà a portare troppo tardi a seguito della tragica rapina, descritta in modo impeccabile nell’epilogo del film. Quella corsa appare più lunga di Dagli Appennini alle Ande.

 

I furti orchestrati dalla simpatica combriccola di ragazzi hanno la peculiarità di essere perpetrati in seguito a un bisogno: dallo stereo – per ottenere più aggressività, forse conferita dalla provenienza del mezzo espressivo con cui si produce musica – alle batterie, alle medicine. Oltre a rubare i ragazzi lavorano duramente sottraendo tempo allo studio e quindi evidenziando il motivo del divario sempre maggiore con i ricchi: il piccolo scrivano gabonese prima della malattia della madre era tra i più solerti studenti della classe e questo risvolto didascalico getta una luce particolare sui rapporti tra larga parte del cinema africano, spesso impegnato a fornire risvolti moralistici da fiaba esemplare (a parte grandi esempi lirici), e lo spirito del tempo risorgimentale, quando si dovevano "fare gli italiani", fino all’idealismo crociano.

Gli stucchevoli momenti sulla riva del mare con i due ragazzini mano nella mano sottraggono volutamente spazio all’eversione iniziale della crew, mettendo in conto di poter meglio colpire un pubblico immerso nei buoni sentimenti, probabilmente nelle corde degli spettatori africani a cui si rivolge il film. Più di matrice globalizzata, probabilmente debitrice di molte visioni hollywoodiane, è la disputa scolastica con il mellifluo compagno di scuola ricco (bravissimo l’attore: si sgozzerebbe volentieri quando lascia cadere la battuta: "De tous les façons je tien plus classe"), infoulardata espressione giovanile dei meccanismi posti in essere dal vincitore del dôlé, che si trasforma subito in protoberlusconide non appena mette mano sul gruzzolo, mostrando paternalismo, degnazione e diventando oggetto dell’attrazione delle telecamere: proprio la trasmissione della sua metamorfosi in possidente spinge i ragazzi a organizzare il colpo. Questa costruzione di tipaz mostra come la creazione di caratteri sia imperniata a una sorta di rassegna di stereotipi, qualche volta bozzettistica, immersi nella ricostruzione neorealistica dei sobborghi. Una scelta che sembra andare nella direzione di una accettazione dello stato di fatto, persino ammessa esplicitamente ("Il mondo è diviso tra quelli che subiscono e quelli che decidono" è la frase che si direbbe sancisca la perpetuazione rassegnata dello status quo), l’unica chance sarebbe il velleitarismo dei piccoli colpi… almeno finché, una volta enumerati tutti gli elementi utili alla deflagrazione in chiave tragica – e punitiva della colpa dei furti –, l’autore comincia a introdurre dati ambigui, come il nome del ragazzo che proviene da una serie, ma che non offre una chiave per configurare l’eroe come buono o cattivo. Una serie di questi minimi intertesti, frapposti al flusso lineare della storia come pareva fosse belle che preparata, agevola la predisposizione al finale persino surreale per certi versi, ma (come era avvenuto già per il film del Benin presentato lo scorso anno, Barbecue Pejo di Jean Odoutan) coerente con l’impianto che rifugge per costituzione – e per richiesta del mercato africano – dalla tragicità di un epilogo triste, nonostante si tocchino argomenti angoscianti.

Infatti dal momento in cui Mougler decide di rapinare il chiosco del gratta e vinci per comprare le medicine della madre moribonda si entra in un’oasi anche visivamente isolata dal resto del film, ripresa prima dall’alto – a iniziare dal rito voodoo che prelude all’assalto – e poi riadottando quell’iniziale uso dello spallone che entra a marcare un’azione "aggressiva" verso i modelli sociali: una sequenza montata benissimo, badando a dosare i tempi di ogni singola inquadratura, riuscendo a mantenere la rapidità dell’azione e l’incombenza del momento che scorre immediatamente prima dell’attacco e che stringe le viscere (il regista sceglie con maestria di girare anche dall’alto, ma con un movimento oscillante sulla cabina assolata, le ombre ridotte al minimo e nulla intorno: la sospensione di un western), poi l’assalto seguito da molti punti di vista, mantenendo la frenesia delle molteplici azioni, seguendole tutte, senza soluzione di continuità eppure frammentandole e dando il giusto rilievo a tutti i gesti culminando magistralmente nell’uso del rallentato sul momento clou del colpo col calcio di fucile che fa stramazzare Baby Lee; dopodiché la camera si muove come per una ripresa giornalistica a cogliere gli umori dei protagonisti.

Dopo la scena "madre" della morte della malata montata banalmente – ma efficacemente – in parallelo con la corsa del figlio, non disturba lo strano finale con sorpresa sulla sorte di Baby Lee… l’aggressività può non avere una accezione negativa e questa conclusione espressa in un contesto così didascalico può essere un "insegnamento" originale.