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Dirty Pictures
Anno: 2000
Regista: Frank Pierson;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 17-04-2001


Dirty Pictures

Ye Ben

Dirty Pictures

Visto all'16° festival internazionale di film con tematiche omosessuali - Torino




 



Regia:  Frank Pierson
Sceneggiatura:  Ilene Chaiken
Fotografia:  Hiro Narita
Montaqgio:  Peter Zinner
Musica:  Mark Snow
Scenografia:  Alicia Keywan

CAST

James Woods ....Dennis Barrie,
Ann Marin .... Jane Sutter,
Craig T. Nelson .... Sheriff Simon Leis,
Diana Scarwid .... Dianne Barrie,
Leon Pownal .... Prouty.

Produzione: Metro Goldwyn Mayer
Showtimes Media
Durata: 104'
Anno: 2000
Nazione: Usa
Vinctore del Golden Globe 2000 come miglior film televisivo

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Un docu-film onesto. Nonostante Dennis Barrie, il gallerista che volle sfidare il perbenismo pruriginoso della provincia americana organizzando nel 1990 a Cincinnati The Perfect Moment, la mostra postuma delle foto senza veli – di nessun tipo – di Robert Mapplethorpe, avesse vinto la causa legale intentata contro di lui da sbirri, bigotti e intolleranti, il film non vuole finire sui toni trionfalistici. Infatti l’ultima di tutte le "interviste" di questo docufiction è la più significativa: se le considerazioni pacate di un perseguitato dal fanatismo come Rushdie, che cita l’inquisizione, sono piene di buon senso e Susan Sarandon è l’emblema della radical di Hollywood (stupita dalla rigidità morale di Mapplethorpe), non da meno il coreografo Bill T. Jones sintetizza meglio: "L’artista ha voluto comunicare cosa è normale: la vagina di fianco al fiore assume un significato diverso"… decontestualizzati anche gli addominali di Gesù Cristo sono osceni. Però nessuno è così efficace – Buchanann e Bush padre sono ovvii nei loro panni di liberticidi in doppio petto e lo sceriffo del plot è quasi la macchietta di se stesso, come un Gasparri qualunque – quanto l’allegoria del nazista determinato a cancellare ogni ombra di Primo Emendamento dalla Costituzione americana, a questo sconosciuto con il volto della maggioranza silenziosa spetta l’ultima considerazione, dopo la sentenza, dopo la solita uscita dal tribunale e le dichiarazioni di ogni film con qualche tratto processuale, compare il suo volto anonimo, ma con i tratti tipici del "nazista dell’Illinois" (dell’Ohio in questo caso e sappiamo in questi giorni di coprifuoco a Cincinnati quali sono i metodi della polizia, che quest’anno ha già ucciso 15 giovani afroamericani, dimostrando come il razzismo dei fatti di sangue e l’ignoranza bigotta nel caso della mostra vadano sempre a braccetto in una città dove secondo un motto diffuso si può venire arrestati se si è pensato intensamente ad una banana e contemporaneamente a una ciambella): un lucido mostro che dichiara esplicitamente l’intento di spazzare via l’emendamento principale che sancisce la più totale libertà di espressione. Sadicamente a lui è affidato il compito di ricordarci come Barrie perse poi comunque il posto e la moglie; non si tratta soltanto di vendetta, sottilmente gli autori indicano nel processo di involuzione totalitaria della società il vincitore sul lungo periodo, mentre questi episodi – sorprendenti – di assoluzione sono incidenti fortuiti, che non devono tranquillizzarci: "Our victory was won long before that trial. Our victory is in our power to bring prosecutions. All across the country these days, people are much more careful about the kind of artwork they show in their museums and galleries. No one wants to come up against what Dennis Barrie went through."



Un docu-film globale; a partire dal locale. Sui titoli iniziali scorrono le foto artistiche, come nel finale, ma il commento nel primo caso è affidato a Born in the Usa di Bruce "the boss" Springsteen, come a caratterizzare localmente il caso, alla fine la voce off è più generica, universale; una battuta recitata da un convincente James Woods chiarifica: "Vorrei che i nostri bambini si provincializzassero, entrando in una realtà globalizzata", l’unica forma di globalizzazione accettabile è dunque quella che libera l’arte dalle beghe di enti morali come il sedicente "Gruppo di Controllo dei Valori della Famiglia", che impedisce a Cincinnati l’uscita di Playboy, legando due volte il caso della mostra di Mapplethorpe con quello di Larry Flint, citato più volte con esplicito riferimento anche al film di Forman (in questa edizione del festival il suo corpus filmico viene saccheggiato). Il film cambia registro volutamente quando si mostrano le riunioni della giuria, evidenziando l’inadeguatezza, l’impreparazione e dunque quanto la sede sia inopportuna; ma soprattutto il provincialismo degli interventi, l’imbarazzo a cogliere il vero motivo della contesa, cioè la possibilità di definire steccati per impedire l’espressione generalmente. La censura mascherata da indignazione viene sconfitta nel momento in cui il singolo, difendendo il particolare suo, interviene nel dibattito facendo vibrare nell’aula le proprie paure: il film prova timore di fronte a questo atteggiamento, perché l’unica salvezza sarebbe invece una convinta alzata di scudi, immediata e globale. Questo si avverte nella ridotta presenza di fiction, che punteggia con lievi tratti le interviste – autentiche –, il dibattito – ricostruito –, le foto – originali –, il contorno di una società retriva – rappresentata –; nonostante la presenza di un divo come James Woods, il quotidiano di Dennis Barrie serve a suffragare l’intrusione violenta nella sua vita dell’intolleranza provinciale.



Un docu-film di critica d’arte. La domanda centrale imposta dal dibattito forense (e la primissima inquadratura del film è un piano sequenza che segue gli ingressi in campo degli avvocati impegnati a preparare le arringhe), ma posta a Diane Barrie dal marito nell’intimità della famiglia, sottesa a qualunque espressione artistica estrema è: "Queste foto sono oscene?". La scelta di mostrare più volte le fotografie senza alcuna censura ha provocato qualche problema al film, dimostrando quanto siano radicate le forme sempre uguali di censura, tuttavia è una opzione fondamentale per consentire agli spettatori del film di giudicare, l’invito formulato alla giuria ("Voi dovete decidere se questa è arte") viene pronunciato in macchina, come a richiedere agli spettatori una presa di posizione anche in materia artistica: la prima volta senza condizionamenti, poi più preparati dagli interventi ("Quando dall’accostamento di due cose scaturisce una terza, questo non è osceno", citando chissà quanto consapevolmente il metodo paranoico-critico di Dalì) e dalle deposizioni degli esperti d’arte, che spiegano quanto poco conti il soggetto rispetto alla luce, alla scelta dell’inquadratura, agli oggetti inseriti a interagire, mettendo in difficoltà le capacità dialettiche dell’avvocato, dimostrando come si tratti di una forma di linguaggio non riducibile al codice linguistico della magistratura, tanto che l’esperta di parte dell’accusa viene dileggiata nella ricostruzione filmica (che probabilmente si è avvalsa dei verbali del processo) non sapendo applicare una corretta lettura alle foto si limita a balbettii banali, provando che il perverso è colui che vuole vedere forme oscene nelle combinazioni di luci e ombre delle foto di Mapplethorpe.

Purtroppo la gente comune non ha la preparazione per distinguere tra le semplici e pedestri considerazioni della paladina della famiglia spacciata per esperta di comunicazione visiva e le dotte disquisizioni degli esperti. C’è per fortuna una dovizia di materiali artistici inseriti nel film, che non temono, come negli esecrabili film-biografia, di venire sviliti dal raccontino della figura umana del pittore (per rimanere tra quelli citati nel film, uno di questi è Basquiat, realizzato da Schnabel), anzi documentano l’asserzione di Barrie-Woods: "Come nel caso di Basquiat e Keith Haring, l’arte deve essere provocatoria". Gli autori si premurano di accennare a tutti gli approcci e quindi attraverso le interviste inseriscono anche l’aspetto relativo all’educazione, motivo per cui certe proposte possono provocare choc. Ma proprio questo è uno dei compiti dell’arte: mostrare forme sotto punti di vista insoliti.

Il problema è che nessuno si deve arrogare il diritto di definire cosa sia arte. E quindi l’errore è a monte: non si deve consentire che alcuno possa decidere per tutti se un’espressione è artistica. Come esplicita Woods nel suo pezzo di bravura alla Monsieur Verdoux di Chaplin: nel momento in cui egli avesse accettato di sospendere la mostra, sarebbe stato come ammettere che qualcuno, che non capisce nemmeno di quale argomento si sta parlando, potesse decidere se è ammissibile che esista quell’espressione appellandosi a criteri inapplicabili all’arte in generale, una volta negato quel diritto di cittadinanza, qualsiasi forma d’arte può venire spenta.

Un docu-film di denuncia. Esposizione della malafede del bigottismo, dei metodi di pressione psicologica, minatoria, poliziesca con i quali si creano testimoni compiacenti: addirittura, senza curare le forme, tre sbirri sono gli unici che presentano esposti su sette fotografie giudicate da loro oscene e solo su quello si fonda il rinvio a giudizio del procuratore, amico d’infanzia dello sceriffo, prototipo del reazionario colmo di pregiudizi e deciso a imporre i valori morali della comunità di Cincinnati; ricostruzione della brutalità esibita con gusto – altra forma di espressione, cafona – dai poliziotti che il 7 aprile 1990 (evidentemente un anniversario per tutti i reazionari del mondo) fecero irruzione nel Cincinnati Contemporary Arts Center's chiudendo al pubblico l’esposizione; elenco delle vessazioni personali nei confronti anche dei figli di Barrie, picchiati e dileggiati dai compagni di scuola e delle chiusure della comunità che evita ogni rapporto con la famiglia del reprobo. Persino un componente della giuria che deciderà per il meglio, nella riunione finale dimostra la sua confusione mentale, che è la forma più diffusa di reazione: "Mi sono spostato a Cincinnati perché era pulita e ora mia figlia vuole il piercing. Non voglio che una mia decisione possa rovinare quel poco che c’è ancora." È quello che guarderà poco convinto Barrie uscendo dal tribunale, e sarà quello che vota tutte le "case della (distruzione) delle libertà" sparse nel mondo per un malinteso senso di insicurezza, che è solo crassa ignoranza.