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Diciassette anni
Anno: 1999
Regista: Zhang Yuan;
Autore Recensione: Luca Bandirali
Provenienza: Cina;
Data inserimento nel database: 19-03-2000


Cina anno zero

Cina anno zero

Zhang Yuan è un regista cinese di trentotto anni; sebbene abbia alle spalle quattro lungometraggi di finzione e svariati documentari, ci si accorge del suo cinema con l’uscita di Diciassette anni, presentato all’ultimo Festival di Venezia ed ora nel circuito della distribuzione commerciale grazie all’Istituto Luce. I film di Zhang Yuan in patria si scontrano regolarmente con le rigide disposizioni della commissione censura, ma raggiungono comunque il pubblico di quella che è la cultura alternativa, giovanile e sotterranea. Preceduto dai resoconti veneziani, che ne facevano un film coraggioso, disturbante, Diciassette anni si rivela anzitutto un solido racconto morale nel quale s’instaura un’interessante dialettica fra realismo dei materiali espressivi e simbolismo dei personaggi. Il linguaggio è volutamente sfrondato di ogni orpello: montaggio trasparente, attenta composizione assiale di inquadrature statiche, ritmi meditati. La vicenda, nel procedere ineluttabile proprio del genere tragico, è universale e si avvale di un apparato simbolico intelligibile: non inganni la messa in scena dimessa, la condizione umile dei personaggi; potrebbero essere figli di Dei, per come il fato ne dispone ad arbitrio, per come scontano i peccati del vivere. La giovane Tao Lan uccide la sorellastra Yu Xiaoquin come potrebbe accadere in un sogno (o su un palcoscenico): in un accesso di rabbia, col primo oggetto che le è dato afferrare, per strada, dopo una lite banalissima ma intensa. Dopo, il carcere: diciassette anni. In Cina (come ci informa Zhang Yuan in sede di conferenza stampa) la pena viene ridiscussa ogni due anni in base all’autocritica condotta dal condannato: Tao Lan è giunta quasi al termine del periodo di reclusione, ed ottiene il primo permesso per passare qualche giorno in famiglia. La retorica dello Stato all’interno del sistema carcerario induce al "cambiamento", ad una profonda rivoluzione interiore tesa a distruggere la disposizione stessa del soggetto al delitto. Il discorso dei dirigenti del carcere prima dell’uscita di Tao Lan invita a "credere nella buona fede dell’umanità", condizione primaria per un reinserimento nella società civile: il percorso di Tao Lan allora deve condurre inevitabilmente al perdono, che le giunge prima dallo Stato-guida (che è rappresentato dal personaggio di una guardia carceraria giovane e positiva, Che Jie), e poi dalla famiglia (che in un primo tempo la rifiuta). Ma è lo Stato a mostrare la via, non ci sono dubbi.

Nella rinuncia a forzare il linguaggio sta l’essenza di quest’opera raccolta e insieme radiosa, carica di una fede profonda nelle possibilità del racconto; chi scrive non ama particolarmente il cinema pedagogico (e Diciassette anni vi rientra a tutti gli effetti), ma a Zhang Yuan riesce la difficile sintesi tra opzione realista (e il realismo del cinema-duemila è meta-neo-realismo, come risulta evidente nel riferimento costante a Rossellini) e apparato simbolico, e allora si guadagna la nostra stima.

Il fatto che in Italia si voglia fare di Zhang Yuan una sorta di martire ha del grottesco; nell’incontro con la stampa Yuan sottolinea il fatto che il film in patria ha superato l’esame della commissione censura dopo un taglio di tre scene (cosa che accade anche da noi), che però l’autore dice di "essersi lasciato alle spalle", e non sente il bisogno di indicarne la collocazione né il contenuto. Il regista conferma il carattere transnazionale della vicenda narrata quando si dice d’accordo sulla centralità del tema del perdono, e sul suo valore universale; dunque quello allestito dai giornalisti del Bel Paese, che parlano a Zhang Yuan come si parla a un rifugiato politico, mentre è un cineasta che gira il mondo e si guadagna da vivere coi video musicali per MTV, è un teatrino che si smonta in due mosse. Diciassette anni non si chiama Cina anno zero, e non è prodotto con i soldi di una colletta degli oppositori del regime autoritario cinese: è un film che si può vedere a Pechino come a Roma, ed è una coproduzione internazionale che interessa proprio l’Italia (produttore associato è Marco Muller di Fabrica). Lo sceneggiatore di Diciassette anni è uno degli scrittori cinesi più famosi nel mondo, specialmente fra i giovani: Yu Hua, auore di Torture (pubblicato in Italia da Einaudi). Il montaggio è di Jacopo Quadri, che ha lavorato con Bertolucci, Ciprì e Maresco, Martone. Zhang Yuan è un uomo allegro, sorridente, vestito di pelle nera come una rockstar: strano tipo di rifugiato, non credete?

(non riporto che brandelli dell’incontro romano con Zhang Yuan, intanto perché le domande rivoltegli riguardavano esclusivamente la pena di morte in Cina, la libertà di espressione, e il dibattito è stato monopolizzato da queste amenità, come se a Quentin Tarantino si chiedesse della pena di morte negli Stati Uniti e del rigido codice di autocensura che vige ad Hollywood; tra l’altro il buon resoconto dell’incontro veneziano, curato in questa stessa rivista da Federica Arnolfo, offre spunti più interessanti delle chiacchiere romane, pur contenendo – l’incontro e non il resoconto – lo stesso vizio ideologico)