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Dancing North
Anno: 1998
Regista: Paolo Quaregna;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 15-06-1999


Dancing North
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Dancing North


Regia: Paolo Quaregna
Sceneggiatura: Paolo quaregna, Fabio Carlini Monica Rapetti
Fotografia: Luca Santini
Montaggio: Luca Benedetti
Musica: Paolo Buonvino Giogio Negro
Costumi: Nicoletta Taranta
Produzione: Dream Film, Les Films du triangle, Sofidoc
Formato: 35 mm.
Provenienza: Italia
Anno: 1998
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Frédéric Deban ... Franco
Sabrina Leurquin ... Imina
Antonella Ponziani...Franca
Adami Inukpuk
Alice Kokiapik
Noah Aragutak
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L'incredibile visione comincia subito denunciando una triste mancanza di mezzi, che diventa colpevole nel momento in cui si pretende di sottoporre gli spettatori ad una carrellata saltellante sui ghiacci, realizzata probabilmente con la slitta di Amundsen, nonostante la sovvenzione ricevuta sulla base della sceneggiatura, addirittura pubblicata dalla Edt e commercializzata alla cassa del cinema legata alla distribuzione torinese, di cui è alfiere anche Signetto, uno dei patron della Dream Film, produttrice.

La sensazione spiacevole prosegue dopo la discesa dalla nauseante corsa sulle nevi, imbattendoci in uno dei più risaputi montaggi alternati, che dovrebbe prepararci alla svolta nella vita di Franco, il talentuoso protagonista dai profondi occhi: in questo scorcio di film scorrono banalità che preludono ai motivi sottesi alla fuga del musicista torinese verso la tundra esquimese. Dunque assistiamo a questa introduzione sempre a partire dalla sciatta vita nel centro del capoluogo piemontese, che spiega i motivi del disagio del musicista: l'intolleranza incivile di un Babbo Natale impegnato a picchiare un automobilista al fondo di Via Carlo Alberto, usato in modo ridicolo per richiamare l'incappucciato Inuit, alle attività venatorie del quale assistiamo attraverso un montaggio fondato sulle attrazioni formali che non ci risparmia il primo di due dialoghi con la preda ("Ho voglia di ucciderti", dice Nanuk in un sussulto di comunione naturale che riassume il messaggio dell'intera operazione, compreso già alla prima apparizione del nativo). Queste situazioni dialogiche sono noiosamente didattiche e costellano l'intera sceneggiatura, ma l'irritazione che ne può derivare non è pari al senso di comicità involontaria innescata con battute pronunciate dalla macchietta imbarazzata di impresario, agente affarista del musicista impegnato a imporre all'interno del Teatro Carignano (perché lì?) il rispetto degli impegni discografici, o con il classico "Vestita così sei bellissima", rivolto alla ex compagna che lo ha lasciato (e che parla in romanesco su un ballatoio di Via Po), l'avance viene rintuzzata con l'altrettanto prevedibile "Sono incinta..." dell'altro, ovviamente. Sdraiato sotto il totem di CD in una casa più che decorosa e arredata con gusto per un giornale di design (incredibilmente ordinata visto il notorio legame tra genio e sregolatezza), l'irrequieto sedicente nomade accarezza l'idea di scoprire l'avventura, la cui reale portata ci viene rappresentata immediatamente nel non ancora concluso alternarsi di nevicate torinesi con paesaggi canadesi, fatti di calde case di muratura dotate di televisione a Akiani.

E qui iniziano le ambiguità, che si protraggono per tutto il film. Infatti s'immagina che la posizione del regista sia una denuncia del pregiudizio occidentale, secondo il quale si ammanta di esotismo un'etnia diversa, laddove invece svolge un'esistenza equiparabile alla nostra, ma contemporaneamente sembra che si voglia accreditare un atteggiamento nostalgico per l'age d'or in cui si dovevano mangiare i cani per rientrare all'accampamento da una battuta di caccia (particolare rivendicato con veemenza da un giovane allievo): insomma traspare un po' l'idea che in omaggio al nostro bisogno di evasione i nativi dovrebbero mantenere invariata la loro condizione e accogliere tutte le nostre richieste, soprattutto quelle d'affari sullo stampo delle perline in cambio di oro da conquistadores. A questo proposito gli autori infilano una delle poche battute godibili: alla richiesta di due turisti di produrre in serie una riproduzione di un orso, Nanuk, l'autore sottolinea che ogni pezzo costerebbe di più, perché dovrebbero "pagare il fastidio di rifare sempre la stessa cosa".

"É normale che ti senta male in un mondo di mercenari": invece lui che si fa pagare quasi $4000 per importunare gli Inuit, lasciandosi alle spalle guai e ferite - ma un ingestibile buon esito come artista - è un idealista: dunque anche la figura usurata del genio appassionato viene tratteggiata con chiaroscuri anche quando si cerca di imporre l'idea antropologicamente centrale che i nativi ambiscono a vivere come i bianchi e questi vogliono diventare Inuit. E questo vale pure per la bianca, carina. ovviamente alla ricerca di se stessa dopo molti successi nel proprio ambiente: pare che la Groenlandia sia un ricettacolo di persone positive indirizzate lì dal bisogno di cimentarsi ulteriormente con la propria indubbia propensione al successo. Infatti tutto riesce benissimo a Franco: si rende simpatico al mito della comunità (che porta guarda caso il nome affibbiato da Flaherty al suo famoso esquimese), per accattivarsi i giovani con cui deve lavorare gli basta sussurrare un "La musica va trovata in se stessi", si tromba la DJ della radio del paese, da neofita ha persino la fortuna dei principianti e colpisce il Caribù in una battuta di caccia: perché non lo eleggono Capo? Ma è chiaro: perché deve seguire il suo spirito nomade, come si ribadisce più volte, addirittura quando cerca di svincolarsi dai tentacoli di Imina, che si vuole far portare in Europa. E noi dobbiamo assistere all'ignobile tergiversare di Franco, arrampicato su gelidi specchi per salvaguardare la sua libertà.

Non appagato da questa sequela di banalità Quaregna infila anche sollecitazioni da fine etnologo: "Avete una cultura e non ve ne servite" e allora il sacro fervore buonista da cui è agitato gli fa inventare un giovane ribelle che fa la figura del coglione: Noah prima balla come un invasato (poverino, non sa che gli sciamani hanno fatto il loro tempo), poi si mette a parlare con il caribù (e così lo manca: mica è Nanuk, lui), quindi si incazza e guarda la tv ad un volume troppo alto (rimbrottato: mica è il tollerante invasore Franco), si ribella alle sciocchezze delle ingerenze pubblicitarie e al verbo 'imporre' pronunciato distrattamente dal neghittoso medico, infine brucia la stazione radio in cui si è incantato un cd (ma come si permette: sarà mica uno squatter?): l'ultimo ululato, da antologia del cinema raffazzonato, gli è fatale: viene ridotto all'impotenza. Non aveva capito che è ammessa la ribellione, ma solo se finalizzata all'integrazione. Incarcerato, diventa oggetto di benevole considerazioni riguardo la sua sensibilità e poi sparisce, inghiottito dall'oblio.

Ancora peggio va a Nanuk,, brutalizzato nel finale. Una figura che per tutto il film riesce a salvaguardare la sua forza evocatrice nonostante l'imbarazzato episodio della slitta a motore in panne che propone una delle sequenze cinematografiche più emblematiche di assenza di idee, con i tre attori per interi minuti ripresi a girare a vuoto senza senso nel vuoto bianco in campo medio, quindi neanche inseriti nell'ambiente o stagliati decisamente sul ghiaccio, semplicemente allo sbaraglio. Se Flaherty nel 1922 preferiva tratteggiare una figura di eroe semplice con toni oggettivi, qui si tende a renderlo misterioso tenutario di inesplicabili riti centellinati soprattutto con l'apparizione molteplice di uno strumento a percussione, di cui è custode e incantevole suonatore (interrotta da un criminale montaggio la sua performance): la sua presenza scenica riesce a rintuzzare i tentativi di ridurlo a spot della cultura Inuit e probabilmente la battuta "L'errore è stato entrare in affari con l'uomo bianco" è autocritica. Se Cimino aveva inventato un Sunchaser poetico, completamente immerso nella poesia, che trova la sublimazione nella sequenza finale di trasformazione: un'immersione nella natura, Quaregna invece abbatte la poesia dell'eroico indiano, trasformandolo nell'orso polare di cui porta il nome in un modo così avvilente che anche il discorso politicamente corretto sul metissage ("Superare il diritto del suolo e il diritto del sangue") diventa un compitino da scuola media, dove anche la volontà di esprimere lo stesso facile concetto con un melange delle tradizioni musicali (da Mozart a Springsteen!!) fallisce perché non va mai oltre un artificiosa giustapposizione a concetti espressi soltanto per atteggiamento mentale e non perché sentiti nella pelle (sintetica o meno: "Con Lavietex mi sento nella mia pelle meglio che nella mia pelle" è il messaggio pubblicitario che scatena la giusta rabbia di Noah, ma lo sceneggiatore bianco gli fa dire una battuta che sembra un altro slogan: "La razza bianca crede che tutto si compra, ha perso l'anima e non sa come recuperarla"; ride persino il più fervente sostenitore della causa dei colonizzati di fronte a tanta retorica).

Quella spacciata dagli autori non è una legittimazione della ingerenza, ma soffre dei bacilli della nuova convivenza globalizzata: prevale chi sa integrarsi con i dominatori del mondo; unica nota positiva è che se sopravvive solo chi ha proposte innovative, Quaregna è destinato all'estinzione. "Il pubblico ti porta dove non vuoi", spassosa sentenza recitata seriamente, ma come autodenuncia forse non regge, perché si direbbe che la gran quantità di argomenti, affrontati in modo schizofrenico somigliano di più ad una frenesia di pontificare senza essersi chiariti le idee prima e sicuramente il pubblico non voleva essere portato ad assistere ai balbettii di un indeciso, trasportato presso una comunità a cui viene imposto di tollerarlo anche come collega di recitazione.

Va e non ti voltare più ... cerca di dimenticare.