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Kalo Pothi – The Black Hen
Anno: 2015
Regista: Min Bahadur Bham;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Nepal;
Data inserimento nel database: 20-10-2015


“I maoisti sono una minaccia per i nostri figli.” Il Nepal per circa dieci anni è stato sconvolto dalla guerra civile. Si sono fronteggiati l’esercito e i guerriglieri maoisti. Nel 2006 si è raggiunto un accordo e lentamente è iniziato il disarmo delle popolazioni armate. Ci sono stati circa tredicimila morti dei quali molti civili. Il regista nepalese Min Bahadur Bham ci racconta un frammento della guerra nel film Kalo Pothi – The Black Hen. Il cinema nepalese è sconosciuto. Il regista ci racconta dell’amore dei nepalesi per il cinema: “In questo momento in Nepal si producono più di 150 film all’anno, come in Europa e in India, ma nessuno di essi è veramente buono.” Centocinquanta film sono tanti per una nazione di circa trenta milioni di abitanti e povera. L’autore ci presenta la guerra incrociando un linguaggio realistico con quello sognatore e visionario. Il legame della storia è fantastico, è una gallina nera che passa di mano in mano: “Nella storia la gallina è un elemento molto importante, è il personaggio principale e una sorta di metafora.” S’inizia con l’inquadratura dell’animale portata in un cesto da un vecchio. Siamo in un villaggio rurale nel nord del paese. Due ragazzini, Prakash e Kiran, amici nonostante le differenze di casta, arrivano in possesso della gallina per poi perderla. I due ragazzini sono molto vivaci. Subiscono la guerra, la sorella di Prakash è entrata nell’esercito maiosta, mentre i parenti di Kiran sono i capi del villaggio, fedeli al governo. Sono loro a raccontare la guerra, a mostrarci le disuguaglianze effimere, inesistenti nella loro ingenua giovinezza e amicizia. La ricerca assidua, e perfino pericolosa della gallina, è la ricerca della pace, che tarda ad arrivare. Il regista si sofferma sul rosso comunista, sulla falce e martello, sulle immagini di Mao. Tutti i maoisti vestono rigorosamente in rosso: “saluto rosso.” L’altro aspetto è la vita quotidiana di una nazione sperduta del Nepal. Un mondo sconosciuto. Il regista indugia sui particolari umani e sociali, non solo la grande problematica della guerra civile. Mostra la povertà, nel paese uomini e animali vivono insieme, in una promiscuità scarsamente igienica. Non hanno il bagno in casa e si lavano fuori. Mangiano cipolle crude con il sale e ingoiano uova intere. Gli uomini camminano avanti e le donne qualche passo indietro. Ma c’è pure divertimento: la gara al tiro della fune, l’arrivo del cinema, la buffa danza in tuta militare per cercare delle reclute. Il posto è bellissimo, un luogo sospeso sopra il mondo, dove è possibile vedere l’infinito. Questa bellezza è accentuata dal tono irreale su cui punta l’autore: la paura per i fantasmi, per l’orso nero. “Hai il singhiozzo, tuo nonno ti pensa” e riusciamo a comprendere il valore della memoria. Nel film la fisicità della natura è notevole, mischiata con il fantastico, la crudeltà del conflitto, i sogni dei bambini, le tradizioni ataviche. Il risultato è una storia potente, girato con passione. I bambini, in una foresta, rimangono invischiati in uno scontro fra una pattuglia governativa e quella dei ribelli. Il sangue è tanto e i morti sono ovunque. Fuggiti, entrano nudi nel fiume, e l’acqua intorno a loro si macchia di rosso. Il sangue non ha risparmiato nulla, forse solo la gallina che continua il viaggio.