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Villa Touma
Anno: 2014
Regista: Suha Arraf;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Israele;
Data inserimento nel database: 17-11-2014


“Ai miei tempi il diabete era solo per gente di classe.” Chi pensa che Israele sia in pericolo per le minacce dall’esterno si sbaglia, il peggior nemico di Israele è al suo interno. La regista palestinese, cittadina israeliana (1), Suha Arraf ci racconta in Villa Touma un aspetto di vita di Ramallah, cittadina della Cisgiordania. Ci narra una storia particolare, originale rispetto ai soliti temi trattati dalle pellicole di registi arabo/israeliani. È una bella novità, se pensiamo che Suha Arraf, sia stata la sceneggiatrice di due tipici film sui ripetitivi argomenti palestinesi: Il giardino dei limoni e La sposa siriana. Fuori di una scuola cristiana, una ragazza, Badia, sta uscendo. Saluta le amiche. Arriva in un edificio austero: Villa Touma. Una costruzione vissuta. Ci possiamo leggere le storie del passato, sicuramente anni prima ci ha vissuto una ricca e conosciuta famiglia, la quale riceveva molta gente radunate in feste imponenti. Ora mantiene il fascino di un tempo passato, ma s’intravvedono le rughe e i difetti di qualcosa cambiato in peggio. All’interno vivono le sue zie. Le tre donne appartengono a un mondo antico. Con esse captiamo la nostalgia per un’epoca scomparsa brutalmente. Esse erano membri di un’aristocratica antica famiglia cristiana di Ramallah. La città era a maggioranza cristiana; arabi cristiani ricchi e benestanti. (2) Badia è la figlia del fratello morto insieme alla moglie musulmana. Per le sue origini è tenuta in scarsa considerazione dalle zie snob, elitarie e molto superbe. In Villa Touma si sente l’assedio cui sono sottoposte. Intorno ci sono solo musulmani, dai quali le donne si tengono rigorosamente separati. Ci sono rimasti pochi cristiani e i giovani cercano una sistemazione all’estero. Però perfino all’interno della comunità cristiana le sorelle Touma sono tenute in scarsa considerazione, un po’ emarginate. La ricchezza di un tempo è sparita, gli rimane la vecchia villa e un terreno da cui hanno la loro unica rendita. All’arrivo, l’orfana, deve affrontare le rigorose abitudini famigliari. La cena è inflessibilmente alle otto. Il ritardo della ragazza è implacabilmente scandito dai battiti severi dell’orologio. La preoccupazione è trovarle un marito, un bravo sposo cristiano, purtroppo merce rara a Ramallah. Inizieranno a insegnarle il galateo: “Le ragazze perbene non battono tamburi.” Durante il compito impervio, ci sono momenti di colore e divertenti. Le tre zie mostrano l’aspetto ludico nell’incarico serioso, cambiare lo stile della selvaggia Badia. Ci sono delle scene molto belle. Le zie e la nipote guardano insieme la televisione e contemporaneamente, in sincronia e con ritmo muovono postura e i ferri per la maglia. Dentro la chiesa, le donne Touma si spostano come un teatrino, con tanto di coreografia. Le donne si stanno amalgamando. La regista le posiziona come dei quadri d’epoca, magari senza valore economico ma di qualità intrinseca. All’interno della villa per le zie ci sono anche emozioni passate, a volte si trasformano in dolori nascosti nell’intimo dei loro cuori. Ciò gli procura delle paure, e non provano nessun desiderio a uscire dal loro piccolo mondo. Il finale è una ripetizione della storia della famiglia. La regista ha un’idea bene precisa, ci lancia un messaggio conservatore, affine con quella realtà: avete visto come musulmani e cristiani stavano bene prima. La domanda è, ma prima di quando? La regista lo sa bene (3) e pure lo spettatore, dove vuole andare a parare. Inoltre, purtroppo tratta goffamente e sufficienza il mondo cristiano. Le tre zie escono solo per andare in chiesa. Si vestono come se fossero in un’altra epoca. In una scena camminano disgustate nella strada piena di musulmani, ci sono delle donne in burga le quali ridono sfottendole. Inoltre gli incontri fra cristiani appaiono tutte finalizzati a degli scopi materiali. Si va a un matrimonio ovvero a un funerale perché le donne possano maliziare, spettegolare, sparlare. Se non fosse per questo peccato originale, Villa Touma sarebbe un bel film, con dei passaggi piacevoli, nonostante la drammaticità della storia. È proprio il mix delle due emozioni a essere la qualità migliore. Bei dialoghi, una sistemazione dei personaggi esatta, dei ritmi sincronizzati. Divertente la scena dell’Ave Maria. Un uomo è inseguito dall’esercito, bussa e chiede aiuto nella villa. Le donne accorrono, ma non sembrano molto convinte. L’uomo gli dice di essere cristiano e loro per essere sicure gli fanno recitare l’Ave Maria. Peccato per la presunzione e la scarsa visione del mondo della regista, altrimenti il film sarebbe stato proprio seducente. (1) “Io sono palestinese e sono una cittadina di Israele.” (http://blog.iodonna.it/cinema/2014/08/31/villa-touma-delle-polemiche-intervista-con-la-regista-suha-arraf/) (2) “A Ramallah la popolazione, prima della guerra del ’67, era al 70% cristiana, e molti erano ricchi, c’era una vera e propria aristocrazia.” (http://blog.iodonna.it/cinema/2014/08/31/villa-touma-delle-polemiche-intervista-con-la-regista-suha-arraf/) (3) “Allora mi sono chiesta se non ci fosse stata l’occupazione dal ’67, come sarebbe oggi la città? Forse sono nostalgica, forse vorrei che Ramallah avesse ancora quel fascino e non fosse la città dura e grigia che è oggi.” (http://blog.iodonna.it/cinema/2014/08/31/villa-touma-delle-polemiche-intervista-con-la-regista-suha-arraf/)