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Nobi - Fires On the Plain
Anno: 2014
Regista: Shinya Tsukamoto;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 14-10-2014


“Ucciditi!” Il regista Shinya Tsukamoto è autore di bellissimi film. La sua fama parte con Tetsuo, la trasposizione in immagini di uno dei traumi del corpo umano: congiungersi, essere parte unica con una macchina, con pezzi di un robot. È un incubo angosciante, creato dalla nostra mente malata. È diffuso nella cultura del Giappone moderna, basti pensare a Yukio Mishima o a tanti manga. Lo stesso linguaggio Shinya Tsukamoto lo usa per una nuova stravolgente storia, capace di deformare le nostre convinzioni umane. A Venezia 71 presenta Nobi - Fires On the Plain. “Credo che Nobi sia un intero film-incubo, quindi a prendere il sopravvento qui è decisamente il sogno. L’incubo a cui mi riferisco, però, paradossalmente è anche qualcosa di realmente accaduto, cioè il secondo conflitto mondiale. Considerando che per lunghi periodi in Giappone si smette di ricordare la tragedia della guerra, volevo restituirla sul grande schermo, in tutta la sua drammaticità, nel suo carattere di incubo a occhi aperti. La violenza esplicita di molte scene ha proprio l’intento di indurre gli spettatori a odiare la guerra.” (http://carnagenews.com/venezia-71-intervista-esclusiva-shinya-tsukamoto/) Shinya Tsukamoto in questa intervista racconta di un incubo reale, qualcosa di realmente accaduto, e incredibilmente ma nessuno può escludere una sua ripetizione nel futuro. La visione mostruosa è la guerra, in particolare la seconda guerra mondiale. Nel 1942 il Giappone ha conquistato le Filippine dagli americani. Nel 1945 la riconquisteranno cacciando i giapponesi. Per la struttura morfologica delle Filippine, molti soldati giapponesi rimasero isolati, bloccati nella giungla. L’ordine fu di raggiungere le ultime resistenze militari giapponesi a Cebu. Ma la ritirata fu un massacro, perché i giapponesi erano già denutriti, senza rifornimenti da lungo tempo. Questo episodio è raccontato da Shinya Tsukamoto nel suo stile, nel suo linguaggio, nella sua visione apocalittica, sopra le righe ed esageratamente, non ci risparmia nessun particolare. Anzi, il regista riesce a sconvolgerci proprio nel dettaglio, ci trascina nelle piaghe putride insieme alle mosche o ai vermi, ottiene il successo di provocarci delle reazioni inumane. Siamo vicini al crollo del Giappone. In un piccolo distaccamento, nel mezzo della foresta, un soldato sta male, soffre hai polmoni. È sporco, stanco, deturpato, denutrito; ci disgusta. L’ufficiale lo caccia all’ospedale. Non hanno cibo allora gli consegna un paio di patate malandate, l’unico cibo disponibile. Sconvolto, sfinito, è senza capacità di reagire, di ribellarsi, si presenta all’ospedale. È una capanna sempre nella foresta. Un luogo scoraggiante poiché è il simbolo dello schifo. Ci provoca nausea, repulsione, ripugnanza. L’ospedale è immerso nel sangue rosso sporco. I soldati feriti sono curati senza medicine, senza igiene, senza anestesia. Il dottore interviene a mani nude inserendole negli squarci. Il sangue raggiunge lo schermo intero. Fra i degenti inizia una lotta per il cibo, hanno fame, sono diventati dei fantasmi di uomini, il senso di sopravvivenza li spinge a compiere gesti infami. Il regista c’è lo racconta con una camera impazzita come il senno umano. La telecamera si muove a zigzag, si getta nelle persone, ci mostra la sfumatura ripugnante. Nel seguito della storia ci sarà il miserabile tentativo di moltissimi soldati disgraziati, soli nella foresta, a raggiungere Cebu l’ultima resistenza organizzata dei giapponesi. La guerra è allucinante, schizofrenica, deprime la coscienza dell’esistenza, ci rende essere fetidi. Ci racconta il regista: “Nei film occidentali siamo però abituati a rappresentare anche la guerra in maniera diversa. Su questo tema la franchezza non è solo in Occidente ma anche in Giappone. I film sulla guerra vengono trattati o in chiave eroica, con l’esaltazione di determinate figure, o dei melodrammi strappalacrime. Io trovo che sia un’assurdità perché la guerra andrebbe sempre rappresentata nella crudezza e nel suo orrore.” (http://farefilm.it/persone/intervista-shinya-tsukamoto-nel-mio-film-c-il-vero-orrore-della-guerra-1315) Al contrario della sua affermazione, la guerra di Shinya Tsukamoto è eroica. Infatti, i reietti soldati giapponesi in fuga, senza cibo e mezzi, sono un gruppo di eroi, i quali lottano con tutti i mezzi per restare vivi, sebbene intorno ci sia solo morte, disperazione e pazzia. In Nobi la musica riempie lo schermo, la camera e il taglio delle inquadrature hanno una vita propria; tutto si sposta frenetica e senza controllo per disgustarci. Non siamo nemmeno capaci di provare pietà per quei soldati senza dignità e fattezze umane. L’estremo tentativo di raggiungere Cebu si trasforma in una passeggiata nell’inferno. Una purificazione umana e il corpo dei soldati sono elevati nella sua spiritualità. “Nei miei film, il corpo umano diventa un oggetto e così è anche sui campi di battaglia. E così come la gente pensa che i miei film siano spesso eccessivi, lo stesso vale anche per la guerra. Questo era un film che dovevo fare, per parlare ancora una volta del corpo umano e della sua sopravvivenza”. www.everyeye.it/cinema/articoli/nobi-shinya-tsukamoto_intervista_23532 Infatti, è il corpo dei prostrati militari a essere oggetto dell’attenzione del regista nella parte finale. Si parla di cannibalismo. I sentieri sono pieni di carcasse, in tante scene crudeli vediamo pezzi di uomini ovunque, e benché siano smembrati, ancora tentano penosamente di vivere. In realtà sono dei fantasmi, dei cadaveri. Sembrano degli zombie perché sono senza forze, camminano per disperazione. Perdono le viscere, le budella, l’intestino; gambe e bracci sono tagliati di netto e abbandonati mentre ciò che rimane del corpo continua a lottare per vivere. Neppure le sanguisughe, i vermi impediscono il desiderio di salvarsi. Nonostante la morte vicina, le sofferenze, la fame, c’è perfino qualcosa di più minaccioso a spaventarli. Fra gli sventurati circola una voce, un orrore. Non è la morte, c’è qualcosa di peggio della morte. Fra i pochi rimasti una voce è sussurrata con angustia: molti per sopravvivere si cibano di carne umana, delle stesse carogne degli stessi compagni di armi. Il cannibalismo diventa la parte unificatrice del finale. L’antropofagia è una metafora della situazione del Giappone al termine della seconda guerra mondiale. Manca poco al lancio delle due bombe atomiche, alla prima invasione straniera dell’arcipelago. Le distruzioni sono tante e le ferite non sono solo fisiche ma soprattutto morali. La sconfitta è vicina e la popolazione è convita, con l’arrivo degli americani, di essere uccisi e disprezzati nel corpo e nella cultura. Il numero dei suicidi sarà enorme con lo sbarco di MacArthur. Non è la morte a spaventarli ma la fine di un mondo. Shinya Tsukamoto è barbaro con lo spettatore. Siamo consapevoli: la guerra è dura, è spietata e l’autorevole autore giapponese c’è lo ricorda con classe. Tutto è costruito con idee chiare e precise, nulla è lasciato al caso grazie alla visione continuamente angosciante della vita. In questo bagno di tristezza e crudeltà, Shinya Tsukamoto ci consegna anche una piccola ma gioiosa speranza, da trasformarsi spero in un utopico orgasmo: Tetsuo ritornerà sotto forma di manga. “E Tetsuo? Non è un progetto ma ho una vaga idea di farne un film d’animazione.” (http://farefilm.it/persone/intervista-shinya-tsukamoto-nel-mio-film-c-il-vero-orrore-della-guerra-1315)