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Good Kill
Anno: 2014
Regista: Andrew Niccol;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 03-10-2014


“Oggi ho fatto saltare sei talebani in Pakistan e ora torno a casa.” Dalle guerre a colpi di pietra e bastone siamo passati alle guerre spaziali. Più le armi sono micidiali e precise, meno morti ci sono. Sarò cinico: poiché credo che sia impossibile azzerare le guerre nel breve termine, e forse neppure nel lungo, è meglio che ci siano poche vittime. Da circa una decina d’anni l’aeronautica militare ha compiuto una rivoluzione nella guerra aerea. Nei tempi di Francesco Baracca i combattimenti aerei erano come dei duelli, i piloti dovevano guidare mirare sparare bombardare in dei trabiccoli piuttosto incerti. Ora è il tempo dei droni, degli aerei particolari, senza uomini a bordo, guidati in remoto da una postazione lontanissima. È fattibile per l’alta qualità dei sistemi elettronici, i quali consentono una visione dettagliata tramite telecamere potentissime. La differenza con un F-22 Raptor è evidente. Se è colpito un drone si perde una valida e costosa arma mentre nell’altro caso si mette in pericolo degli uomini. Dobbiamo essere grati al regista Andrew Niccol con il film Good Kill perché per la prima volta ci porta nel mondo dei droni. Siamo nel 2010 nella fantasmagorica e luminosa Las Vegas. Appare fantascienza ma nella vicina base di aerea ogni mattina, un gruppo di piloti, come degli impiegati delle poste, timbrano il cartellino e iniziano a bombardare o l’Afghanistan o l’Iraq o qualsiasi altro posto ritenuto necessario. Sono i piloti dei droni, i quali da remoto guidano e colpiscono i missili a bersaglio grazie ai potenti obiettivi. Fra loro c’è Thomas. Ha guidato caccia in tre missioni americane. Ora il suo compito è uccidere stando seduto vicino a casa. È molto bravo nel lavoro, riesce a comprendere e anticipare i movimenti del nemico. Good Kill - bel colpo – è il complimento più sentito da Thomas. Finito il lavoro, Thomas torna a casa dalla moglie, dai due figli e dai tanti soliti problemi di una famiglia. Subito intuiamo qualcosa di sbagliato dentro Thomas: “Sembri distante chilometri” lo accusa la moglie. Thomas sta soffrendo di depressione. Abbandonato il combattimento sul terreno, nel suo nuovo ruolo non riesce a riconoscersi. Tutto è diverso rispetto a prima. I due mondi s’intrecciano con un bel montaggio. Nella base aerea un gruppo di giovani è stato arruolato direttamente dai centri commerciali, per la loro abilità nei videogiochi. Perché la nuova guerra è simile alle battaglie virtuali dei giochi al computer. I militari sono svuotati dalla funzione di soldato: l’adrenalina del combattere, della paura, dell’eroismo. Nella base, in uno squallido container, ci sono i posti di guida. Siamo in un videogioco perché si alterna l’occhio umano nella base, con l’occhio elettronico a migliaia di chilometri. Il drone vola alto ma per i piloti in remoto, l’aereo si trasforma in un prolungamento del loro corpo. Ugualmente il regista alterna primi piano a immagini chiare e precise dell’Afghanistan. Finiscono a essere testimoni perfino di uno stupro, poi ripetuto nel tempo. A casa invece Thomas e la moglie litigano. Sono nella stanza da letto e l’inquadratura dal basso punta su un grande crocefisso sopra il loro letto. Per Thomas i due mondi si alternano trascinati entrambi verso il peggio. Nella base arrivano gli ordini della cattiva CIA. I bombardamenti si devono intensificare fino a essere preventivi. Thomas questo non lo sopporta. Sbotta e lascia la moglie, e nel lavoro precipita verso l’incapacità a svolgerlo. Ci sono delle idee buone nella pellicola ma tante anche strane. Diciamo la verità, se non ci fosse la parte della guerra dei droni e la curiosità nell’utilizzo della micidiale nuova arma, il film sarebbe più simile a Top Gun noioso. La tensione circostante alla base aerea è piatta, senza significato, quasi messa in piedi per non avere come prodotto finito un documentario. Una carenza di soggetto, la sceneggiatura stenta nell’avanzare del racconto. Ma perfino all’interno della base qualcosa non funziona. Comprendo che parlare male della CIA è sempre una benemerenza per certi ambienti piacioni, ma questa volta si sono persi. Non ho capito perché i morti eseguiti per ordine della CIA siano moralmente peggiori rispetto alle vittime ordinate per conto del Pentagono, boh! La morale diventa patetica con le lacrime della soldatessa. Il regista a questo punto è totalmente fuori fase. Gli sceneggiatori sono sconvolti, forse non leggono neppure i giornali. Per ordine della CIA devono lanciare un missile in Yemen, l’ufficiale tuona contro i servizi segreti: “non sapevo che l’America era in guerra con lo Yemen.” Poco prima, senza nessun ordine dell’intelligence, avevano lanciato delle bombe in Pakistan. Ora sono io a dire “non sapevo che l’America era in guerra con il Pakistan.” Ma è il carattere di Thomas a rendermi ancora più perplesso. La sua psicologia è confusa e incerta. Chi è Thomas? Il regista si perde. Thomas è travisato nel solito banale incoerente pacifista, convertitosi dopo aver ucciso tante persone? In realtà non è questo, ma l’autore sembra volerlo indirizzare verso questo facile cammino. Ovvero è un conservatore e tradizionalista, amante del vecchio modo di fare la guerra: “Puoi mettermi su un aereo.” Quindi un militare nostalgico, la cui adrenalina della guerra è scomparsa. Ma il regista neppure questo tema ci vuole consegnare. Perciò il finale è incoerente e Thomas non appartiene a nessun mondo. Ci possiamo consolare con la tensione dei droni, della guerra. È intelligente il collegamento fra le visioni dall’alto con il drone in Afghanistan e le riprese su Las Vegas. La capitale del gioco d’azzardo ha un’inquadratura aerea; le case, i bambini sono ripresi come se ci fosse un drone sulla loro testa. Come si sentirebbero gli americani con quei giocattolini sopra di loro?