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Il giovane favoloso
Anno: 2014
Regista: Mario Martone;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 11-09-2014


“L’unico divertimento a Recanati è lo studio.” C’è un legame profondo fra Mario Martone e le Marche. Dopo aver diretto l’Aureliana in Palmira per il Rossini Opera Festival, presenta a Venezia Il giovane favoloso sulla vita di Giacomo Leopardi. Un compito non facile, sia per l’autorità e la fama del poeta, sia perché qualunque taglio avesse scelto qualcuno avrebbe avuto qualcosa da ridire. Tutti hanno letto e studiato Leopardi a scuola, pertanto tutti si sentono pronti di pontificare sull’argomento. Bisogno riconoscere il coraggio di Martone, il quale ha scelto la via più complicata, abusando in alcuni momenti della sua autorevolezza con la conseguenza di andare saltuariamente a cozzare contro una buona dose di vanità. Quale taglio ha scelto il regista? Qual è la sua visione del poeta? Come inquadra le sue opere e la sua esistenza nell’epoca? Mario Martone lo vede come un ribelle politico sociale, parlando di Elio Germano afferma: “Ho sempre pensato che lui poteva farlo e doveva essere lui, perché è un ribelle Elio, e io volevo che questo Leopardi fosse un ribelle”. (http://cinema.leonardo.it/giacomo-leopardi-film-intervista-al-regista-mario-martone/) Il primo elemento: Leopardi è un ribelle, un rivoluzionario, un sovvertitore, un eversivo, un autore scomodo, fastidioso. Questa caratteristica la mescola con una buona dose di omosessualità, portando in primo piano uno speciale rapporto con l’amico Antonio Ranieri: “C’è chi ha visto un rapporto omosessuale tra il poeta e l’amico Ranieri. Lei come l’ha affrontato? Con una scelta insieme estetica ed etica, cioè di stare a quello che le carte raccontano, siano esse di Leopardi o di altri che scrivono di lui. Non abbiamo sovrapposto interpretazioni, lasciando che le scene alludessero o lasciassero libero lo spettatore d’interpretare, perché Leopardi da solo bastava.” (http://news.cinecitta.com/IT/it-it/news/54/12789/mario-martone-il-mio-leopardi-un-moderno-ribelle.aspx Nei film non esiste mai una libera interpretazione dello spettatore, è un controsenso detto proprio da un regista. Inoltre non c’è una semplice allusione sul rapporto con il Ranieri ma ha un’evidente ripetuta provocatoria concessione sull’argomento. Soprattutto è eccessiva la scena del postribolo nel quale si reca un Leopardi voglioso: “L’apparizione del femminiello napoletano nell’iniziazione sessuale di Leopardi è un fatto vero o inventato? E’ l’unica scena che non ha a che fare con le carte leopardiane, ma è un’altra carta poetica di Enzo Moscato, “Partitura” dedicato a Leopardi a Napoli e immagina la scena in cui Ranieri conduce l’amico in questo lupanare dove avviene l’incontro con un ermafrodito. E’ l’unica libertà che mi sono concesso. Ci sono molte soglie nella sua vita che avrei potuto oltrepassare. La nostra decisione, mia e della sceneggiatrice, è stata di quella di non varcarle, di stare insieme allo spettatore. Ranieri raccontando il sodalizio con l’amico scrive “Leopardi è morto casto” e per tanti così mette fine a tutte le chiacchiere sulla loro amicizia. Chi lo può dire? Comunque non ha importanza. E’ importante mostrare queste soglie.” (http://news.cinecitta.com/IT/it-it/news/54/12789/mario-martone-il-mio-leopardi-un-moderno-ribelle.aspx Avrebbe potuto oltrepassare tante soglie ma alla fine a scelto proprio la tematica sessuale, perché? Perché fra le moltitudini chiavi di lettura di un personaggio dotato, Martone ci sfida presentandolo come un omosessuale ribelle politico e sociale? Come c’è lo spiega il regista: “Non crede che ci sia una vicinanza di Leopardi con la figura intellettuale di Pasolini? E’ molto chiara la differenza tra i due, trovo invece simile la posizione di Leopardi in rapporto con la società culturale del suo tempo. Pasolini diceva di sé “io sono un tollerato”. Era mal sopportato perché non apparteneva a nessun coro, perché poteva dire qualcosa di non allineato a pensieri schierati in un senso o in un altro. E lo stesso accade a Leopardi che certo era considerato ma non rispondeva al bisogno di una società idealista di coloro che lottavano per l’Unità d’Italia. Del resto c’è uno suo sguardo feroce verso persone che hanno anche grandi meriti, ma Leopardi vedeva oltre. Oggi vediamo il risultato delle “magnifiche sorti progressive”: abbiamo tutte le macerie che le illusioni rivoluzionarie e idealiste hanno provocato. Allora non era possibile. Questo sfalsamento di Leopardi con il suo tempo gli ha provocato aspre critiche, anche dopo la sua morte.” (http://news.cinecitta.com/IT/it-it/news/54/12789/mario-martone-il-mio-leopardi-un-moderno-ribelle.aspx) Ecco il perché. Mario Martone ci racconta Leopardi come se fosse Pasolini. L’autore di Ragazzi di vita aveva un ego profondo, una vita avventata, delle scelte eseguita con la piena determinazione, sia quelle politiche e sociale, sia quelle personali. Il regista sovrappone i due autori. Partendo da questa lettura il film si presenta più comprensivo ma sicuramente molto personale e scarsamente tollerato. La storia inizia a Recanati con un test di capacità intellettuali nel quale Giacomo prevale per manifesta superiorità, alternandolo con scene di gioco spensierato. L’infanzia è già dura, però con i fratelli ci sono momenti allegri e ludici. Si passa al giovane Leopardi, quello favoloso, quello dello studio ostinato, capace già di elaborare opere affascinanti. Nonostante la grande abilità, Giacomo è inquieto, irascibile, nevrotico. Non riesce a usare il coltello sottoposto a un attacco isterico perciò il padre amorevolmente gli taglia la carne. Recanati è “posto in un sito caro e ameno” ma scomodo per un poeta. Inoltre, il suo mondo si rimpicciolisce ancora di più. È quasi sempre rinchiuso nel palazzo del padre, e come in una bambola russa ancora più imprigionato nella maestosa biblioteca. In questa prigione Leopardi compone alcuni testi importanti. Qui Martone sbanda vistosamente. È arduo, se non impossibile, cogliere visivamente il momento della formazione di un artista, ma per il Leopardi di Martone l’atto creativo è impresentabile. Sembra più l’estasi di Santa Teresa, un assalto mistico, una folgorazione sulla via di Damasco, lo stupore dell’apparizione delle stigmate. Leopardi è in preda a attacchi nervosi, guarda la campagna di Recanati dalla finestra della biblioteca e istintivamente declama i versi delle sue poesie. Non meglio gli va con la figura di Silvia. Si poteva evitare? Silvia è una bella ragazza, Giacomo la osserva dalla finestra del palazzo. Appartiene a una famiglia normale, come gli stessi frequentatori nella piazza del paese. Giacomo e Silvia sono inconciliabili, Silvia è bella, mentre Leopardi si sta crudelmente ingobbendo, sta diventando brutto e sgraziato. Le tentazioni delle grandi città arrivano con la corrispondenza con lo scrittore Pietro Giordani. Purtroppo le lettere sono lette da una voce fuori campo con un tempo lungo, appesantendo la storia fino a renderla soporifera. “Non è mai uscito da solo.” Il padre è geloso dell’amicizia con Pietro Giordani. Il Conte Monaldo Leopardi è una delle figure meglio riuscite. È l’unico a comprendere il figlio, anche se, per troppo amore, non lo lasciare andare liberamente. Solo dopo anni il padre consentirà a Giacomo di lasciare Recanati. Dei suoi anni fuori dalle Marche, Martone ci mostra il tempo passato a Firenze e a Napoli. Sono gli anni dell’amicizia con il napoletano Antonio Ranieri. Il contrasto è evidente. Ranieri è giovane, bello, desiderato da tutte le donne, laddove il corpo di Leopardi si è trasformato fino a renderlo deformato e sformato. In questo frammento il regista ammicca sull’omosessualità del poeta. Non è solo il patetico episodio del bordello con il trans, ma lo sbirciare malizioso del Leopardi al Ranieri nudo mentre fa il bagno ovvero la gelosia malnascosta per le relazioni del napoletano con le tante donne ovvero l’ambigua amicizia con un ragazzo popolano. È il tempo della presunta ribellione nei confronti di un conservatorismo intellettuale. Come il mancato premio letterario, i litigi con gli scrittori dell’epoca, il gesto isterico nel bar contro gli avventori che criticavano la sua opera: “Nel novecento non ne resterà nemmeno la gobba.” Il giovane favoloso è una montagna russa, un’altalena di emozioni. Martone ha una grande predilezione per Rossini, infatti nel film ci sono molte sue musiche. Per esprimere un concetto lapidario su Il giovane favoloso si può prendere in prestito una famosa sentenza del Rossini. Quando gli fu chiesto un giudizio su Wagner la risposta fu: “Regala bellissimi momenti. Ma anche terribili quarti d'ora." Lo stesso è per Il giovane favoloso. Ci sono momenti belli per poi sprofondare in atroci tensioni e noie da spezzare ogni passione e lirismo. Degli esempi li ho già citati, ma c’è ne sono altri. È una macchietta il padre di Silvia. Il giorno della morte della ragazza parla in uno stretto dialetto marchigiano, ascoltato per la prima volta nella pellicola. Ovvero il sarto fiorentino che disquisisce come un filosofo. Ovvero la conformistica iconografia di Napoli, con l’eruzione del Vesuvio, il colera e i tanti teschi mostrati come in un quadro post tridentino. Il compito peggiore spetta a Elio Germano, “un ribelle” come lo definisce Martone. Io aggiungerei un ribelle con il portafoglio gonfio, lo stomaco pieno e la suite all’Excelsior. Peculiarità capaci di rendere l’incombenza rivoluzionaria quasi piacevole e sicuramente snob nelle frequentazioni dell’alta società. Ebbene la rappresentazione di Germano del Leopardi è una via di mezzo fra il gobbo di Notre Dame e l’hobbit Smeagol del Signore degli anelli, con la differenza che il volto di Germano è costantemente tirato, inesorabilmente immutabile nella buona e cattiva sorte. Siamo di fronte a una caricatura, nella quale l’estasi poetica è simile ai volti contorti di quando si hanno i conati di vomito dopo una sbornia colossale.