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Ana Arabia
Anno: 2013
Regista: Amos Gitai;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia; Israele;
Data inserimento nel database: 10-09-2013


“I suoi parenti occupano mezzo cimitero.” Dopo il documentario sulla sua famiglia, Amos Gitai torna a Venezia con Ana Arabia. Ci racconta la storia di una donna ebrea sopravvissuta all’olocausto di Auschwitz, la quale trasferitasi in Israele, s’innamora di un arabo e si converte all’islam. Da un soggetto radicale ed estremo, gira con uguale fondamentalismo il film: usa un unico piano sequenza. È la storia della donna raccontata indirettamente dal marito vedovo, dagli amici, dai vicini a una giornalista alla ricerca dello scoop a effetto. La giornalista Yael entra in una piccola estrema baraccopoli di Tel Aviv, dove vive il marito. È un angolo arabo intorno alla città moderna. Soltanto nella panoramica iniziale e finale possiamo vedere la metropoli in forte sviluppo. Dentro la piccola enclave, la vita è rimasta indietro nel tempo. Yael intervista l’uomo, il quale gli racconta l’avventura della moglie, le difficoltà avute da entrambi per le loro scelte, stigmatizzate sia dagli ebrei, sia dagli arabi. Eppure hanno voluto sfidare il pregiudizio per esaltare l’amore: “Dicono che l’amore sia più forte della morte.” La storia presenta una valutazione umana chiara: se c’è amore arabi e israeliani possono coesistere pacificamente. È una bella favola, e Amos Gitai, infatti, dirige la pellicola come una fiaba. La giornalista è molto evanescente, intorno, i parenti e gli amici arabi, iniziano a raccontargli le loro storie. Sono belle, ricche di valori e di significati. Solitamente non hanno uno stacco, perché smette uno e un altro gli inizia a parlargli. Abitando in un’estremità della città, non si sentono particolarmente ben voluti. Ma non è il problema di essere arabi, è la difficoltà di essere fuori dal tempo. D’altronde Hassan - il marito - non ha rabbia, esprime un ricco sentimento di nostalgia: “Ci manca solo il sogno.” Gitai sa riprenderlo bene. È il carattere migliore, perché la giornalista è totalmente astrusa e insignificante. Egli è un affabulatore, un personaggio di altri tempi, un canta storie, e come tale lo prendiamo. Certo, il lungo piano sequenza pesa alla storia, la rende ampollosa, anche per la recitazione con pause introvabili se ci fosse stato un montaggio. Abbiamo però la consueta bravura del regista israeliano, il quale accetta la sfida cinematografica.