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Viva la libertà
Anno: 2013
Regista: Roberto Andò;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 12-08-2013


“Non ci sarà più traccia di noi.” La cultura è l’espressione di un paese, di una popolazione, la rappresentazione di un modo di vivere. Dovrebbe avere una propria etica, una morale, essere in grado di mostrarci con coraggio frammenti del nostro mondo senza conformismo e piangeria. Dalla cultura nasce la classe dirigente, i quali dovrebbero rendere reale e pratico il mondo sognato. Il filosofo Karl Marx ha scritto il pensiero del comunismo prima che nascesse il partito. L’Italia è un paese culturalmente fallito e di conseguenza la politica altrettanto. Il gioco alla moda è accusare i partiti di tutto, vezzo antico, basta ricordare la famosa battuta “piove governo ladro”. Collettore di tutte le colpe è esclusivamente la politica, perché? Il divertimento di denigrarli (a buon diritto) ha una fonte lobbistica. Se tutto è colpa della politica, le grandi responsabilità morali della classe economica, borghesia, giornalismo, magistratura, burocrati, chiesa, noi stessi appaiono inesistenti. Noi ci siamo auto assolti. I nostri fallimenti sono occultati dagli strali lanciati contro i partiti; bancarottieri perché la cultura sottostante è mancante e decrepita. Il massimo dell’ipocrisia è osservare le denigrazioni lanciate contro la politica dal cinema italiano. Un cinema depresso, partigiano, inutile, parassita. Gli autori italiani sono sempre pronti alla battaglia, a minacciare blocco di festival, marce di milionari se la politica non gli consegna la paghetta. Connivenze fra i due settori sussistono solo per accaparrarsi i fondi pubblici per finanziare ciofeche di pellicole e dare un sussidio ad attori e registi italiani, molti dei quali in altri paesi camperebbero come dei mediocri artisti di strada. Roberto Andò con Viva la libertà ci aiuta a comprendere il fenomeno. Nella trama c’è un leader della sinistra all’opposizione, Enrico Olivieri. Il partito è in crisi ma anche il segretario non sta tanto bene. Enrico all'improvviso sparisce e si rifugia in Francia nelle braccia in una ex amante conosciuta a Cannes, quando entrambi si occupavano di cinema. La sua passione non è la politica ma l’opera cinematografica, perciò il ritorno dall’amica è un ritrovare la predilezione giovanile. È nel pensiero del regista marcare, senza un minimo di autocritica o di modestia, la superiorità morale del cinema rispetto a tutto e tutti. Mentre Enrico è in Francia, il suo posto, di nascosto, è preso dal fratello gemello Giovanni, un pazzo uscito dal manicomio. Prendiamo il soggetto, sostituiamo il segretario con un Papa e abbiamo Habemus Papam di Nanni Moretti. Situazioni analoghe, retrogusto identico, in entrambe le pellicole, i depressi sognavano da ragazzi di essere attori o lavorare nel cinema. Prescindiamo dall’identica fantasia dei nostri autori e osserviamo l’opera di Andò con cautela. Se si chiede a qualcuno come è Viva la libertà, la risposta quanto sia bravo Toni Servillo. Se in un film si esalta la figura degli attori, mi ricorda la storiella di quando si chiede com’è una ragazza e la risposta è ‘’simpatica’’. Gli attori, la fotografia, la musica ecc dovrebbero essere neutri per consentire al regista di svolgere il proprio mestiere. Se qualcosa prevale o si nota in modo esagerato c’è qualcosa che non va. S’inizia con una musica autorevole, un rumore di passi deciso e altisonante. Il segretario e il codazzo di portaborse stanno arrivando a una riunione di partito. Una partenza significativa per determinare la solitudine della politica (infatti, oltre a loro non c’è nessuno), la sudditanza di certi personaggi vicino a loro (il segretario e accompagnato da due portaborse), il finto prestigio (stanno camminando in un grande palazzo), il desiderio di farsi notare (il chiasso ricercato dei passi). Con il bell’inizio si determinano le coordinate della storia. Poi però la storia si riempie di stereotipi. Tanti libri, una casa grande e vuota, tanto disagio, la fatica, l’inutilità del lavoro svolto: “Un uomo politico non ha amici.” Intorno ci sono tante caricature, i personaggi sono tirati, forzati e pieni di slogan con luoghi comuni. Andò si serve di Servillo in tutte le salse. Predilige la luce soffusa, e ci rivela il viso tirato del segretario nell’oscurità, scegliendo giochi di riflessi, con molto nero e tanti suoni sottili per mostrarci la stanchezza e la depressione. Il segretario è la parte migliore. Perché il fratello pazzo è uno stereotipo. Occhi aperti, capelli riti, recitazione fuori le righe. Inoltre è costretto a dei dialoghi sciatti: “L'unica alleanza possibile è con la coscienza della gente.” La mia sensazione è di un’identificazione del fratello folle con Berlusconi. Il regista in un’intervista (http://www.huffingtonpost.it/2013/03/26/intervista-a-roberto-ando-regista-di-viva-la-liberta_n_2949970.html) nega, consciamente, questa identificazione, mentre l’inconscio gli gioca un brutto tiro. Troppo libertino, troppo adulatore delle folle, perfino la scena del ballo con la premier Merkel ricorda lo scherzo di Berlusconi alla ‘culona tedesca’. Forse è questa la nevrosi della sinistra. Al dire il vero i problemi sono tanti. Sicuramente quello dell’invidia è predominante. Un po’ di sano bunga bunga, qualche festa, delle risate, delle barzellette farebbero bene ai volti moralistici e stabilmente tristi degli uomini della sinistra, senza contatto con il popolo. È il messaggio del film, infatti, il leader ha una bipolarità metaforica. La parte peggiore è la presunta comicità. Il film non fa ridere. Il regista ci prova ma non ci riesce assolutamente. Prendiamo la scena del mappamondo, quando il finto segretario incontra il Presidente della Repubblica. Tutto è costruito per essere buffa: Servillo si nasconde e sparisce. Beh, è inguardabile. Se provassimo a immaginare al suo posto Toto, ma addirittura Lino Banfi, Alvaro Vitali o Bombolo, sarebbe stata di certo esilarante. Il regista con la mancanza di ritmo e l’ingessatura attoriale di Servillo hanno reso inservibile tutta la scena. Il film soffre di claustrofobia con tutti questi chiaroscuri, con i silenzi assurdi, non c’è grandezza nelle immagini e soprattutto per le sene comiche la mancanza di ritmo. Ci sono delle belle scene, quella iniziale, il ballo con la Merkel. Il pensiero del regista è ucciso dagli attori e dalla confusione culturale.