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The Lone Ranger
Anno: 2013
Regista: Gore Verbinski;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 03-07-2013


“Mai togliere la maschera.” Non saprei se il genere western è mai morto, sicuramente si sta rinvigorendo con la passione dell’esagerazione e del gusto del racconto. Come dimenticare il recente Django Unchained di Quentin Tarantino. Nella nuova versione riappare l’antico significato dell’epopea umana: il sogno, il desiderio, la libertà. Gli spazi sono immensi, deserti, solitari e gli uomini sui loro cavalli diventato piccolissimi, microscopici di fronte l’infinito della natura. Poiché il western è un’invenzione non storica, Gore Verbinski dirige The Lone Ranger con lo stesso stile: producendo una storia fantastica e irreale. Per accentuare la non storicità il film è un lungo flash back raccontato dal decrepito indiano Tonto. San Francisco 1933, un bambino con maschera entra in un vecchio circo, dove sono esposti delle reliquie del passato west. Il ragazzino si ferma di fronte a Tonto, il quale prende vita e inizia il racconto delle sue avventure con Lone Ranger. Ma il racconto è bugiardo, con tante pecche nella trama e il bambino lo punzecchia ricordandogli i vuoti della cronicità della storia. Infatti, il west è reale solo nella nostra fantasia. Stacco temporale, con un flashback torniamo indietro al 1869 a Colby nel Texas, avamposto della colonizzazione con la costruzione della ferrovia. Da questo momento in poi la storia è insignificante. Ci si accomoda e ci si lascia andare. Il fluire delle immagini colpisce la nostra immaginazione come in un massaggio thailandese, ci sentiamo rilassati, onirici, pronti a credere a tutto. Le immagini sono pulite, ampie, campi totali, lunghi, medi, per passare improvvisamente a dettagli, particolari. La musica è perfetta, altisonante e fracassona, per diventare alla fine una cavalcata irresistibile al suono potente della ouverture del Guglielmo Tell del pesarese Gioacchino Rossini. La trama non ha un attimo di tregua, i ribaltamenti sono veloci, le costruzioni illogiche realizzate al computer s’inframmezzano con i topos del west. Ci sono gli indiani: dovevano essere i cattivi invece sono le vittime. C’è l’assalto al treno con una carrozza piena di bigotti presbiteriani. C’è il chiassoso saloon con postribolo annesso. I personaggi sono tutti deformati, sono delle maschere. Ci sono le cavalcate all’inseguimento, di cui una mirabile all’interno del treno. Non può mancare il cattivo addirittura antropofago: ammirevole quando si lecca le labbra dopo aver mangiato il cuore del suo nemico. E altre decine di filoni si aggiungono, uniti da un montaggio supersonico, con stacchi repentini. Il tono è reso più umano dalla presenza dell’indiano Tonto: strano, divertente, pieno di tic, ironico. La sua presenza contribuisce all’insensatezza del film, le contraddizioni del suo comportamento animano il carattere del cinema western. C’è tanta violenza, cattiveria, ma il bene è presente, anzi è vincente e per denigrarlo lo si emargina come folle e pazzoide. Alcune scene sono irripetibili. Con un’inquadratura lucente e solare i due eroi cavalcano sullo stesso puledro. Il sole è fortissimo, e Lone Ranger tiene un minuscolo ombrellino per riparare Tonto dal caldo. Ma l’unicità di queste caricature sono tante. Tonto urla: “Paura di gatto” e fugge con la testa nella gabbia di un uccellino. Divertimento, gioia, con i bambini in sala a bocca aperta a guardare le avventure irragionevoli e impossibili di un west immortale. Il dettaglio è ricercato. Mentre nel west classico gli eroi erano impeccabili, lindi, come usciti da un centro benessere, nel nuovo filone il naturalismo tende a mostrarci l’uomo come poteva essere: sporco, puzzolente, con le unghie nere, con i cavalli che svolgono le funzioni corporali. Ma se da una parte c’è una descrizione del naturalismo, dall’altra prevale la stravaganza spassosa.