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Solo Dio perdona - Only God Forgives
Anno: 2013
Regista: Nicolas Winding Refn ;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia; Thailand; USA; Svezia;
Data inserimento nel database: 06-06-2013


Julian: “Ha violentato e ucciso una ragazza di sedici anni”. Crystal: “Avrà avuto le sue ragioni.” Bangkok di notte ha un colore offuscato, soffuso. Le tante luci variopinte sono accese giorno e notte nelle zone centrali ma il suo tono maggiore è sempre cupo. La cromaticità della città ha la prevalenza del dark. Tanta oscurità, tanta luce irreale e psichedelica, su uno sfondo nero, sono i toni ripresi dal regista Nicolas Winding Refn. Reduce dal successo nell’adrenalinico e circolare Drive, il regista si appassiona all’attore Ryan Gosling, utilizzandolo per narrare la sua immagine di vendetta e di giustizia, traslata nella capitale Thailandese. L’inizio di Drive è un orgasmo cinematografico per la crescente eccitazione; l’eiaculazione si trasforma, in seguito, in una descrizione di un raro amore altruistico. In Solo Dio perdona siamo di fronte a un racconto spigoloso, cattivo, crudele. L’occhio attento del regista si base su sfumature lente e su particolari fuori campo. C’è uno scarto nel linguaggio rispetto al precedente film. Il dislivello ha creato qualche problema d’intendimento, lasciando perplessi tanti ammiratori. Leggiamo la storia dalla partenza. La presenza di Ryan Gosling è ingombrante, e obbliga il regista a modificare alcune riprese, altrimenti non concessi ad altri interpreti. All’inizio è ripreso dal basso, con portamento statuario risultando ancora più alienato. È un essere amorale e complicato. Dentro ha una crepa psicologica. Più avanti scopriremo il suo malessere. L’ambiente è quello affascinante di Bangkok. C’è il solito tocco di Muay Thai. Ma è sul colore che si gioca la smaniosa direzione del film. Il rosso e il nero abbondano. Rossa è la camicia del fratello e del sangue. La ragazzina uccisa è totalmente dipinta da quello copioso uscito dalle sue ferite. La vendetta avviene in campo medio: un’ombra nera è l’angelo vendicatore che stermina il nemico. Compiuto il gesto rimane ancora tanto sangue. Tutti e tutto sono avvolti dal rosso. Quest’atteggiamento del regista nei confronti della vendetta, della giustizia sopra la legalità è un’accettazione cromatica. In lui c’è una spietata fermezza a dipingere un atteggiamento di vita reale. Ma avrebbe avuto lo stesso risultato se non si fosse gettato nel caleidoscopio di Bangkok e della sua spiritualità? Ad accentuare la volontà di distacco, ma di consapevolezza, c’è addirittura una sensualità esagerata, molto evidente. La pedofilia del fratello di Julian. Oppure l’amore malato di Julian per una prostituta. Qui si apre uno scenario psicologico notevole. Non ha dei rapporti carnali con lei. La donna lo lega alla sedia e di fronte a lui inizia a masturbarsi. La sessualità di Julian è interdetta, inesistente, per la presenza invadente della madre. Abbiamo una diversa zona di combattimento. Ad affrontare la famiglia thailandese c’è Chang, un poliziotto in pensione molto rispettato, il quale gestisce con la sua katana un sentimento di giustizia karmatico. Dall’altra parte c’è Julian un essere freddo e apatico. Soggiace senza speranza alla determinazione distruttrice e ingannatrice della madre. Il finale catartico si svolge in un’accettazione della sconfitta della vita, della colpa e l’assegnazione di una giusta ma disumana, punizione. Chang e Julian si affrontano nel finale in un club surreale. Compiuto il proprio dovere, il poliziotto canta la canzone ????????????? (Tur Kue Kwam Fun) tradotto in un “Lei è un sogno”. Una canzone d’amore triste, un amore vissuto in un sogno, anelato, desiderato, ma irrealizzabile: fun-young-coin-log-lon my dream keeps haunting me hi-chai-me-tae-tur you are in my every single breath mae-mai-me-tur-you even you're not here È la rappresentazione della relazione fra una madre disincantata, spietata e un figlio ossessionato. Un complesso di Edipo totalizzante e mai liberatorio. Il poliziotto sarà il deus ex machina e svolgerà il compito con l’imperturbabilità del suo personaggio. La storia sembra che tardi a decollare, ma in realtà il film ricerca una dimensione esistenzialista, nascondendosi. Ecco perché il regista taglia la scena. Fornisce all’inquadratura dei bordi: delle porte, delle mura. Individuiamo, e non sempre chiaramente, il personaggio mentre sta compiendo un atto, un gesto. L’effetto della sua azione è nascosto dalla barriera visiva. È interpretabile, è intuibile ma non visibile. Perciò il montaggio si realizza per scatti. I personaggi sono fissi per qualche istante poi hanno un sussulto, un gemito e poi si rifermano. Le carrellate sono di un reale finto, perché le immagini formano dimensioni della mente, si trasformano in un sogno apocalittico. Appaiono bugiardi come fasulla è la Bangkok della pellicola. Il poliziotto cammina per Sukhumvit Road – una delle vie più frequentate e chiassose, piene di bar, pub e turisti – improvvisamente sparisce e con lui scompaiono gli abitanti e gli avventori dei mercati. La strada da affollata si svuota inaspettatamente, senza ragione; una realtà bugiarda visibile unicamente nel senno dei personaggi. La città è portatrice di vendetta, come il poliziotto e come la madre. Queste esistenze sono rispecchiate in tante altre scene. I corridoi spaventosamente vuoti di un albergo di lusso. L’immagine è ripresa con una prospettiva rinascimentale, con punto di fuga la porta di un ascensore. Ma intorno c’è il vuoto, un silenzio assurdo impossibile. Ovvero la sparatoria nel centro della capitale. Un conflitto a fuoco artificiale, con tante morte accidentali in uno scenario di vuoto e silenzio. I morti sono a terra. Inizia un inseguimento ma ci sono soltanto loro due, intorno nessuna vita esiste più. Ovvero lo spietato racconto dell’ex poliziotto, il quale continuando con il disumano autocontrollo, tortura il complice dell’agguato per conoscere il mandante. Sono in un club, tutti sono immobili. Le donne chiudono gli occhi. Nessuno ha un sussulto, un imbarazzo neppure di fronte alla selvaggia violenza; la strategia del regista continua, giocata tutta sulle lame di coltelli e punteruoli. Una spietatezza glaciale ma finalizzata. Alla fine Nicolas Winding Refn riprende gli arabeschi tratteggiati dai buchi del muro, con i personaggi principali visti come dei frammenti. La stessa scena c’era all’inizio, quando il rapporto tra fratelli e madre non aveva avuto la sua deflagrazione umana. C’è molta ambizione nel film, la volontà di mostrare i caratteri umani, tuttavia il regista si perde dietro il personaggio di Julian, quasi a ripagare il debito per il lavoro svolto di Ryan Gosling in Drive. Trascura sia il Chang, sia la madre, anche se - Madre Vendetta - è un simbolo molto sfruttato nel cinema, anzitutto da quello asiatico, penso al vincitore della mostra del cinema di Venezia Pietà di Kim Ki-duk. Per il resto c’è molto disegno, tanta posizione dei personaggi, uno studio del colore, un ammiccamento a Bangkok; c’è tanta professionalità valida e ammirevole.