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Venuto al mondo
Anno: 2012
Regista: Sergio Castellitto;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Italia; Spagna;
Data inserimento nel database: 09-01-2013


“È dalla nuca che comincia la vita.” Parlare, scrivere sul cinema italiano è come sparare sulla croce rossa. Stiamo menarcela tanto sulla grande capacità artistica dei nostri lodati autori. C’è chi ci racconta che il loro linguaggio artistico è complicato, difficile da comprendere per noi comuni mortali. Se i loro film sono solo uno spreco di energia elettrica in sale cinematografiche deserte, l’arroganza, l’alterigia, la presunzione dei nostri maestri è capace di additarci come colpevoli d’ignoranza. Ovviamente qualsiasi tribunale del mondo, non corrotto e inquinato nelle facoltà di esprimere un proprio autonomo pensiero, condannerebbe la maleducazione e l’ignoranza dei nostri mestieranti. È incredibile come i prodotti migliori del cinema italiano forse arrivano da quei prodotti architettati da ambienti distanti dal connubio micidiale e alterato fra il nostro cinema e la critica ufficiale. Eppure ci sono opere che non si possono nascondere; prodotti di autori e artisti nazionali con l’aggiunta di personaggi internazionali chiamati adarricchire la loro prosopopea. Venuto al mondo di Sergio Castellitto, tratto da un romanzo della sua signora Margaret Mazzantini è un vero capolavoro. Sì, un capolavoro di noia, banalità, mediocrità, insipidezza, ovvietà, piccolezza, pochezza, grigiore. La storia s’interseca fra l’Italia e Sarajevo. Le fasi temporali sono attorcigliate fra prima della guerra civile in Bosnia, durante la guerra e i tempi attuali. Il film procede con linee interrotte e confuse; lo spettatore è seduto su una montagna russa impazzita guidata da un conducente sbronzo. I personaggi s’imbarcano in situazioni false, e sono completamente frastornati dai colpi incassati da una spocchiosa regia imbalsamata, per di più alimentata dai nostri soldi con il contributo della direzione generale per il Cinema perché “riconosciuto d’interesse culturale.” La partenza del film è miserabile. Regna la confusione. Scegliere alcune perle negative è difficile. Ci posso provare con le esagerazioni finte durante un ballo fra la neve di Sarajevo poco prima delle Olimpiadi: una fastidiosa felicità sovrabbondante. In questa festa, la poco pudica Gemma, incontra un fuso e sballato Diego. Il suo personaggio è descritto alla pari di un demente senile: “Mi fa schifo la tristezza.” A me faceva schifo il film ma tant’è. La noiosa vanità della prima parte continua. Siamo sempre di fronte a una superbia impostura aristocratica, accompagnata da canzoni lunghe e senza senso. “Tu li vuoi i figli?” Perché il tema della storia dovrebbe essere un figlio, di non si sa chi. Le posizioni degli attori sono inesorabilmente ferme, comprensibili, in una noiosa prevedibilità. Come l’assurda danza di Gemma nel barcone al suono di Guantanamera (ma che c’entra?): danza mimando di cullare un bambino, quello agognato. Ma la maternità non arriva, al contrario giunge la guerra a Sarajevo. Ilconflitto per quella popolazione è stata un dramma indescrivibile, con eccidi di gente inerme. Perciò, rappresentare come accade nella pellicola, gli abitanti della città bosniaca come rimbecilliti, supera l’insulsa involontaria comicità, e raggiunge toni offensivi. Durante la guerra prende posizione nel film Aska, un’altra ragazza svenevole, anche lei un personaggio patetico: “Kurt Cobain si droga per sopportare Dio.” Il finale è una lode ai tempi sbagliati, a un montaggio bambinesco, a una regia con dolori di pancia. La pietà dovrebbe accompagnarci sempre, ma come possiamo averla quando una scena di pathos drammatico è raccontata in questo modo: le strade di Sarajevo sono piene di macerie, disabitate. Un giovane esce e conduce il padre invalido in carrozzina. Un cecchino spara e uccide il figlio mentre il padre rimane impotente in mezzo alla strada. Il regista la racconta come se fosse una gara di formula uno, come se il ragazzo sfrecciasse in una pista. Nel finale lo smarrimento è totale. Il tutto è degnamente e ridicolamente sintetizzato in un’eccellente battuta, ricca di significato freudiano: “Kurt Corbain è morto, perché non sei morta tu?” Venuto al mondo non è un film brutto; perché un film brutto ha comunque una sua dignità, un suo lavoro, un suo orgoglio, un’attività di persone che hanno famiglia. Qui la famiglia è un’altra: non hanno bisogno di cibo ma soltanto di una lunga, molto lunga, pausa di riflessione.