NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Contact
Anno: 1997
Regista: Robert Zemeckis;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 19-01-1998


La piuma di Forrest Gump s'è trasfigurata in un caleidoscopio di colori prima di posarsi definitivamente. I giochi cromatici si ravvivano in proporzione inversa all'inquinamento sonoro: quanto più s'affievolisce il fragore di tutte le fonti di musica e voci sparate nello spazio, affievolite dalla distanza siderale interposta dal carrello a ritroso piacevolmente immerso nel turbine iridato, tanto più il silenzio ed il rallentamento della propulsione rendono apprezzabile la luce elaborata in uno degli esempi più fulgidi di expanded cinema da quando Youngblood coniò la definizione.

Però un'amara sorpresa ci attende al termine del tuffo nello spazio con lo sguardo perso verso la terra che si allontana inghiottita dall'ignoto, lo spettatore ripiomba giù atterrando su due occhi di bambina e viene immerso in melensaggini e ricorrenti luoghi retorici del più trito cinema spettacolare di buoni sentimenti americano: banalità che ci perseguitano per l'intero film come la bussola, un gadget trovato nel pacchetto di patatine e che nella sua ricorsività accompagna l'intera ossatura dell'impianto del film, che si avvale della ammirevole interpretazione di John Hurt (il primo gestante di Alien) nella parte di un cieco, unica quanto ovvia guida valida per "far ordine nel caos dei segnali sonori". La ridda di scempiaggini ammanniteci da una Jodie Foster impegnata con tutti i trucchi del mestiere a renderle credibili attraverso le sue mitiche smorfie (datate 1963, anno della pubblicità del Coppertone) comprende: un padre vedovo che la indirizza allo studio dell'astronomia attraverso vetuste prolessi che rimandano al ridicolo epilogo e poi per aggiungere sfiga alle lacrime, che ormai lottano con le risa di scherno della sala, muore d'infarto; un teologo che al primo appuntamento la tromba (pudicamente fuori campo), inserito per avvallare superficiali e stiracchiate diatribe mistiche, in un'atmosfera di falsa new age, di cui sicuramente il pubblico europeo non sentiva bisogno; alieni che non hanno nulla di meglio che rivomitarci addosso Hitler, estraendolo tra tutto il pattume inviato nello spazio dagli umani e accompagnandolo con l'elenco dei numeri primi (non si sa a che proposito, se non per accentuare la loro aura di primi della classe) e, per sovrappeso, infarcendoli di complicati piani di costruzione di un'astronave per raggiungerli, forse folgorati dalla fulgida intelligenza dei messaggi inviati dagli americani nello spazio profondo; preti kamikaze che fanno saltare navicelle generate dall'immaginario fermo agli Z-movies dei '50s; Clinton camuffato da se stesso intento a inanellare serie di dichiarazioni valide per ogni stagione, mentre un astronauta scatena l'ilarità del pubblico al momento della rinuncia alla missione, perché suo figlio non vuole che lui parta, duplicando così la pietas filiale spalmata sull'intera operazione. Queste due ultime immagini si trovano accomunate dal taglio documentaristico, unico barlume di legame con la sferzante critica della società americana, che in Forrest Gump veniva fatta esplodere dall'interno delle situazioni nel momento in cui si completava il quadro del singolo aspetto descritto. Al contrario Contact mette in fila tutti gli stereotipi americani, senza traccia di distacco ironico, anzi l'intera opera è percorsa da una patina seriosa anche nell'esposizione delle giustificazioni scientifiche o nei momenti di concitata eccitazione dovuta ad una scoperta rivelatrice.

Il contraddittorio tra fede e avventura è un dilemma che accompagna l'intera storia degli Stati Uniti, e mai fu affrontata con maggior debolezza e minor senso del ridicolo: entrambi i temi hanno attraversato i deserti con le carovane del west, si affacciarono nelle esplorazioni dello spazio fantascientifiche, fecero capolino persino nelle interminabili serie di film girati nelle aule di tribunali, per raggiungere in quasi tutti gli epiloghi una composizione del loro dissidio tramite la sincresi che accomuna le due prassi, quella confessionale e quella scientifica, facendole sfociare nel loro comune fine privo di dubbi: la verità, della quale si sa che gli americani sono gli unici depositari (preti o tecnici che siano). In questo caso questa certezza viene esplicitata dopo due ore e mezza di fervorini e predicozzi e dunque non può che essere il teologo, tanto comprensivo e sollecito all'inizio, a pronunciarne l'annuncio.

Questo finale abborracciato viene giustapposto all'unica sequenza cui vale la pena di assistere, quella in cui la impavida ricercatrice scende su Vega, sistema da cui proviene il segnale isolato dalle sue attente osservazioni sonore del cosmo. Si percorrono serie di tunnel spazio-temporali, destinati a giustificare la diversa percezione tra noi, che abbiamo seguito l'eroina, e i suoi colleghi, che hanno assistito ad un flop ingannatore; la rivelazione del diverso tempo trascorso viene solo dopo un ennesimo processo moralista e in malafede, genere di cui gli americani sono esperti da Salem a McCarthy, e ci informa che il suo viaggio è realmente durato diciotto ore. Non è però questo che appare più blasfemo nei confronti di 2001, da cui si è saccheggiata l'idea della discesa su Giove attraverso il cinema espanso, quanto la pleonastica sequenza in cui si riesuma il padre su Vega per rendere cinematograficamente insulso il contatto del titolo: la protagonista si incarica di spiegarci come telepaticamente le abbiano carpito i suoi ricordi, che sono anche i nostri della prolessi iniziale del film (due ore prima nella nostra vita), e in questo ambiente rassicurante gli alieni ci avrebbero rassicurato che non c'è il paventato "spreco di spazio" (nel caso la vita terrestre fosse l'unica nell'universo) più volte temuto durante l'intero film. La discesa su Vega si svolge finalmente nella direzione più adatta per questi tipi di sequenze: il tuffo in avanti a velocità repentina, ancora più apprezzabile dopo ore di lungaggini e vaneggiamenti peregrini. Se si fosse posta la parola fine al termine del tunnel e prima della comparsa del padre, si sarebbe almeno ottenuto di racchiudere le prediche in mezzo ad un anello di splendido cinema in espansione, risparmiandoci sequenze già viste in decine di altri orribili film americani.