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Contact Anno: 1997 Regista: Robert Zemeckis; Autore Recensione: Adriano Boano Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 19-01-1998
La
piuma di Forrest Gump s'è trasfigurata in un
caleidoscopio di colori prima di posarsi definitivamente. I
giochi cromatici si ravvivano in proporzione inversa
all'inquinamento sonoro: quanto più s'affievolisce il
fragore di tutte le fonti di musica e voci sparate nello
spazio, affievolite dalla distanza siderale interposta dal
carrello a ritroso piacevolmente immerso nel turbine
iridato, tanto più il silenzio ed il rallentamento
della propulsione rendono apprezzabile la luce elaborata in
uno degli esempi più fulgidi di expanded cinema da quando Youngblood coniò la
definizione.
Però un'amara
sorpresa ci attende al termine del tuffo nello spazio con lo
sguardo perso verso la terra che si allontana inghiottita
dall'ignoto, lo spettatore ripiomba giù atterrando su
due occhi di bambina e viene immerso in melensaggini e
ricorrenti luoghi retorici del più trito cinema
spettacolare di buoni sentimenti americano: banalità
che ci perseguitano per l'intero film come la bussola, un
gadget trovato nel pacchetto di patatine e che nella sua
ricorsività accompagna l'intera ossatura
dell'impianto del film, che si avvale della ammirevole
interpretazione di John Hurt (il primo gestante di
Alien) nella parte di un cieco, unica
quanto ovvia guida valida per "far ordine nel caos dei segnali
sonori". La ridda di
scempiaggini ammanniteci da una Jodie Foster impegnata con
tutti i trucchi del mestiere a renderle credibili attraverso
le sue mitiche smorfie (datate 1963, anno della
pubblicità del Coppertone) comprende: un padre vedovo
che la indirizza allo studio dell'astronomia attraverso
vetuste prolessi che rimandano al ridicolo epilogo e poi per
aggiungere sfiga alle lacrime, che ormai lottano con le risa
di scherno della sala, muore d'infarto; un teologo che al
primo appuntamento la tromba (pudicamente fuori campo),
inserito per avvallare superficiali e stiracchiate diatribe
mistiche, in un'atmosfera di falsa new age, di cui
sicuramente il pubblico europeo non sentiva bisogno; alieni
che non hanno nulla di meglio che rivomitarci addosso
Hitler, estraendolo tra tutto il pattume inviato nello
spazio dagli umani e accompagnandolo con l'elenco dei numeri
primi (non si sa a che proposito, se non per accentuare la
loro aura di primi della classe) e, per sovrappeso,
infarcendoli di complicati piani di costruzione di
un'astronave per raggiungerli, forse folgorati dalla fulgida
intelligenza dei messaggi inviati dagli americani nello
spazio profondo; preti kamikaze che fanno saltare navicelle
generate dall'immaginario fermo agli Z-movies dei '50s;
Clinton camuffato da se stesso intento a inanellare serie di
dichiarazioni valide per ogni stagione, mentre un astronauta
scatena l'ilarità del pubblico al momento della
rinuncia alla missione, perché suo figlio non vuole
che lui parta, duplicando così la pietas filiale spalmata sull'intera
operazione. Queste due ultime immagini si trovano accomunate
dal taglio documentaristico, unico barlume di legame con la
sferzante critica della società americana, che in
Forrest Gump
veniva fatta
esplodere dall'interno delle situazioni nel momento in cui
si completava il quadro del singolo aspetto descritto. Al
contrario Contact mette in fila tutti gli stereotipi
americani, senza traccia di distacco ironico, anzi l'intera
opera è percorsa da una patina seriosa anche
nell'esposizione delle giustificazioni scientifiche o nei
momenti di concitata eccitazione dovuta ad una scoperta
rivelatrice.
Il contraddittorio tra fede
e avventura è un dilemma che accompagna l'intera
storia degli Stati Uniti, e mai fu affrontata con maggior
debolezza e minor senso del ridicolo: entrambi i temi hanno
attraversato i deserti con le carovane del west, si
affacciarono nelle esplorazioni dello spazio
fantascientifiche, fecero capolino persino nelle
interminabili serie di film girati nelle aule di tribunali,
per raggiungere in quasi tutti gli epiloghi una composizione
del loro dissidio tramite la sincresi che accomuna le due
prassi, quella confessionale e quella scientifica, facendole
sfociare nel loro comune fine privo di dubbi: la
verità, della quale si sa che gli americani sono gli
unici depositari (preti o tecnici che siano). In questo caso
questa certezza viene esplicitata dopo due ore e mezza di
fervorini e predicozzi e dunque non può che essere il
teologo, tanto comprensivo e sollecito all'inizio, a
pronunciarne l'annuncio.
Questo finale abborracciato
viene giustapposto all'unica sequenza cui vale la pena di
assistere, quella in cui la impavida ricercatrice scende su
Vega, sistema da cui proviene il segnale isolato dalle sue
attente osservazioni sonore del cosmo. Si percorrono serie
di tunnel spazio-temporali, destinati a giustificare la
diversa percezione tra noi, che abbiamo seguito l'eroina, e
i suoi colleghi, che hanno assistito ad un flop ingannatore; la rivelazione del
diverso tempo trascorso viene solo dopo un ennesimo processo
moralista e in malafede, genere di cui gli americani sono
esperti da Salem a McCarthy, e ci informa che il suo viaggio
è realmente durato diciotto ore. Non è
però questo che appare più blasfemo nei
confronti di 2001, da cui si è saccheggiata l'idea
della discesa su Giove attraverso il cinema espanso, quanto
la pleonastica sequenza in cui si riesuma il padre su Vega
per rendere cinematograficamente insulso il contatto del
titolo: la protagonista si incarica di spiegarci come
telepaticamente le abbiano carpito i suoi ricordi, che sono
anche i nostri della prolessi iniziale del film (due ore
prima nella nostra vita), e in questo ambiente rassicurante
gli alieni ci avrebbero rassicurato che non c'è il
paventato "spreco di spazio" (nel caso la vita terrestre
fosse l'unica nell'universo) più volte temuto durante
l'intero film. La discesa su Vega si svolge finalmente nella
direzione più adatta per questi tipi di sequenze: il
tuffo in avanti a velocità repentina, ancora
più apprezzabile dopo ore di lungaggini e
vaneggiamenti peregrini. Se si fosse posta la parola fine al
termine del tunnel e prima della comparsa del padre, si
sarebbe almeno ottenuto di racchiudere le prediche in mezzo
ad un anello di splendido cinema in espansione,
risparmiandoci sequenze già viste in decine di altri
orribili film americani.
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