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Sharquiya
Anno: 2012
Regista: Ami Livne ;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Israele; Francia; Germania;
Data inserimento nel database: 04-07-2012


“Un beduino è niente senza la sua terra.” Il regista israeliano Ami Livne racconta un frammento dell’esistenza dei circa centomila beduini che vivono nel deserto israeliano. Il titolo del film: Sharquiya è il nome, nella lingua dei beduini, con cui è chiamato il cattivo vento, il cui soffio e le cui conseguenze non si possono eliminare. La pellicola è presentata alla 48° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. La storia ci racconta di Kamel, uomo sui trentenni. Risiede con il fratello Khaled e sua moglie in una baracca nel deserto. Kamel è un personaggio introverso, triste, malinconico. Ha combattuto nell’esercito israeliano e ora è addetto alla sicurezza in un centro commerciale. Più irascibile e rabbioso il fratello. La moglie vorrebbe riprendere gli studi, ma lui mostra tutta la sua contrarietà. Gli è notificato l’ordine di demolizione delle baracche perché abusive. Dentro Kamel nasce un forte sentimento di avversione, di frustrazione. Cercherà con furbizia a modificare gli eventi, ma la risposta è un silenzio; chi è interessato nella sorte di una famiglia di beduini? Il film è tutto basato sul rapporto di Kamel e del fratello con il deserto. La sterile area desertica è preponderante, omnicomprensivo, raccoglie l’intera inquadratura. Prevale il silenzio, spazi infinti, solitudine e anche rassegnazione. Gli stessi caratteri sono ripresi dai giovani beduini. L’inizio della pellicola è una rappresentazione di una normalità quotidiana. Il lavoro, le relazioni con la famiglia, i disagi del vivere nel deserto. Il dramma dello sfratto è vissuto con una sottomissione verista. Non si può fare nulla per combatterla. È inutile protestare energicamente, è inutile avere un comportamento furbo, il destino si realizzerà. Nel finale l’abbattimento della baracca è una rappresentazione di passività: la camera riprende dalle spalle i beduini, mentre osservano apaticamente la ruspa distruggere la loro casa. Eppure: “Un beduino è niente senza la sua terra” perciò il fatalismo si trasforma in pazienza, perché, appena allontanati gli smantellatori, appaiono gli amici per ricostruire nello stesso posto una nuova casa. Kamel accetta il tutto, accetta il suo lavoro di guardiano, accetta la sua solitudine, schiacciato dall’immenso deserto da cui non riuscirà a staccarsi.