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Buon Anno Sarajevo – Djeca
Anno: 2012
Regista: Aida Begic;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Bosnia Herzegovina; Germania; Francia; Turchia;
Data inserimento nel database: 02-07-2012


“Noi non siamo cresciuti in una grotta, ma durante la guerra.” Buon Anno Sarajevo è il titolo con cui sarà distribuito in Italia – Kitchenfilm – la pellicola della giovane regista bosniaca Aida Begic. Il titolo originario è Djeca, mentre in inglese esce con il nome di Children of Sarajevo. Il film ha vinto meritatamente il concorso della 48° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Gli avvenimenti di Sarajevo sono recenti e brutalmente noti. Dal 1992 al 1995 ci fu la massacrante guerra civile, combattuta con crudeltà perché la popolazione era imprigionata nelle loro case. È passato poco tempo, un’opera di ricostruzione storica non è stata ancora avanzata. La politica è incapace di rispondere a questa esigenza, e forse non è un suo compito. Speriamo che in un futuro gli storici possano riportare la verità e gli autentici motivi, distinguendo le responsabilità sugli avvenimenti successi dopo la caduta della Jugoslavia. Il commovente film Cirkus Columbia del regista Danis Tanovic – presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2010 – ci ha raccontato con superbia ironia l’inizio della guerra: la prima bomba scoppia, mentre la giostra iniziava a girare. L’aspetto temporale cambia. Il conflitto è finito, ma i giovani - nati o cresciuti durante la guerra - hanno impresso nel loro dna degli squarci di dolore, delle lacerazioni umane. I traumi sono diversi da quelli che osserviamo – nello sfondo del film - nelle persone costrette in carrozzina, perché i giovani sono fisicamente sani ma con sfregi psicologici, interiori. Del disagio giovanile, delle conseguenze della guerra si occupa Buon Anno Sarajevo. Siamo alla vigilia del 2010, Rahima vive con il giovane fratello Nedim. La madre è morta durante la guerra. I due vivono soli, cercando a fatica di trovare un sostegno reciproco, aggrappandosi all’unico affetto rimasto. È difficile, soprattutto l’adolescente Nedim porta le conseguenze di un patimento sociale e familiare profondo. Non riesce a liberarsi del cupo dolore interiore. Si sfoga con atteggiamenti da duro, comportandosi come un uomo cresciuto troppo in fretta. Emblematica e scioccante la scena di lui di fronte allo specchio, con una pistola in mano a provare il giusto atteggiamento spavaldo per affrontare i compagni di scuola. La sorella si trova invece ad affrontare le privazioni di una crisi economica, di salari bassi (un Iphone costa tre mesi di stipendio), di lavori precari, cui si aggiunge l’obbligo di mantenere ed educare Nedim. Il film è dipinto di nero, un trionfo del buio. I colori sono oscuri anche durante il giorno. Ha contribuito ad alimentare l’atmosfera filmica pure le spenti luci della proiezione all’aperto nella piazza di Pesaro. Rahima si muove con paura durante le notti, la sofferenza è sempre scura, e nel torbido colore si avvantaggiano le risse fra i tanti difficili ragazzi della città. La regista puntando su questa cromaticità non ci lascia dubbi visivi. La guerra non è finita; la guerra continua anche alla vigilia del 2010. È una guerra combattuta nella disperazione di tutti i giorni. Risse, litigi, armi, un ministro arrogante e spocchioso, e soprattutto i tonfi suoni della vita quotidiana. Sotto il ponte della strada il rumore delle macchine sono forti e appaiono come colpi improvvisi di bombe esplose. Oltre la cromaticità, il sonoro e il dettaglio minuzioso delle abitazioni, delle difficili condizioni di vita, la regista si serve principalmente di Rahima per raccontare la storia. Sono i suoi silenzi, le sue poche parole ha descrivere il suo carattere. Per questo la camera non la lascia mai, la accompagna continuamente, lei è inevitabilmente sulla scena, magari nascosta sul bordo della strada. La personalità energica, decisa, risoluta della donna è la metafora del desiderio di uscire dalla paura, di poter finalmente elaborare il lutto della morte e della guerra per riprendere a vivere pazientemente ma con un barlume di speranza. È necessario uscire dal totalizzante amore per il fratello, per cercare di poter disegnare una propria vita. Sempre su di lei sono costruiti i dialoghi fondamentali. Come quando affronta con rabbia il ministro sporcaccione. C’è solo un filo lieve di ironia, lo utilizza per giustificare il velo indossato, motivo delle discordie per il fratello. Quando un’amica gli chiede perchè ricoprirsi la testa dopo tanto tempo, lei si giustificherà con un sincero : “Perché ho le gambe storte e le orecchie a sventola.” La guerra civile è ripresa solo per pochi istanti, con dei flash back, utilizzando una camera a mano, tremolante e impazzata, deformando la visuale delle immagini accompagnate dal fischio fastidioso delle sirene. Un bel film, realizzato con un linguaggio attento, preciso e desideroso di portarci dentro al carattere di una mente sconvolta dalla guerra.