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Dark Shadows
Anno: 2012
Regista: Tim Burton;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 06-06-2012


“La famiglia è l’unica vera ricchezza”, indipendentemente da quanto strana sia. Anche se composta di scarafoni, mostri o pazzi, la famiglia è da amare. Un esempio è l’epica Famiglia Addams, la quale turbava il perbenismo alla televisione negli anni 60/70. Per quanto bislacchi e strambi erano, per quanto deprimente fosse, la famiglia Addams comprendeva tutti gli elementi positivi e costruttivi di un nucleo familiare. Tim Burton è un edificatore di prodotti completi dei suoi piaceri, eseguiti come un collage. Nulla è lasciato al caso. Ogni sequenza ha la sua profondità. Gli attori sono esseri duttili, flessibili, plasmabili, smontabili secondo la sua illuminata bizzarria cinematografica. Per poterlo ottenere è necessario che il corpo degli interpreti sia malleabile, soffice come una plastilina, inoltre è richiesta una remissività totale. Per questo ama circondarsi dagli stessi attori. Dark Shadows è l’ottavo film con Johnny Depp, ma è anche il settimo con Helena Bonham Carter e il quinto con Christopher Lee. Dark Shadows è un film su un’epoca, su un periodo storico definito e importante. Non a caso il tempo di ambientazione coincide con la giovinezza del regista californiano. Il racconto inizia nel 1752, durante il quale il vampiro Barnabas Collins è sepolto vivo a causa di una follemente innamorata, crudele e gelosa strega: Angelique Bouchard. Dopo il breve prologo ci spostiamo nel 1972, quando, casualmente, il vampiro è dissotterrare e ha la possibilità di ritornare nella ricca magione della famiglia nella cittadina di Collinwood. Iniziano le macabre e le divertenti vicissitudini del vampiro Barnabas. Egli cerca di adattarsi al nuovo tempo e alla nuova era : “Una donna dottore? Che era è questa.” Non è agevole perché il mondo è profondamente cambiato. Fra il vampiro e “l’anno 1972” inizia una gara, una competizione fra chi dovrebbe adattarsi per primo. Utilizzando il diafano corpo, di un impassibile e inchiodato Johnny Depp, addobbato come un emo, Burton ci lancia messaggi temporali e storici per tutto il film. La somiglianza con la Famiglia Addams è continua, attraverso tanti segni e tanti richiami. Inoltre, in un cinema della cittadina di Collinwood, il cartellone indica la programmazione del film Deliverance con Burt Reynolds, anno di uscita 1972. Si tratta del mitico Un tranquillo week-end di paura di John Boorman. La colonna sonora è un impazzire di autori dell’epoca: Iggy Pop, Deep Purple, The Carpenters, Elton John, Barry White. La musica non ci lascia mai soli, le canzoni americane e inglesi degli anni settanta accompagnano i colori della pellicola ininterrottamente. Ma il vintage insiste. Tutto è disegnato con il gusto di quegli anni. Come la perfezione dell’architettura, degli arredamenti. Non possono mancare gli hippy contro la guerra del Vietnam. Spostando l’attenzione sul periodo storico e culturale, arricchito da dettagli affascinanti, il regista perde un attimo di vista la storia, non riuscendo a concentrarsi sui personaggi e sullo stridere del confronto del tempo. Qualcosa gli rimane indietro, perché il suo citazionismo continua con la pittura. Oltre i dipinti dell’epoca, c’è un evidente richiamo alla pittrice polacca, ma trasferitasi in America prima della guerra, Tamara de Lempika. Ma l’apoteosi fantasiosa arriva con la formazione di un quadro di Lucio Fontana. Il vampiro Barnabas e la seducente strega Angelique si incontrano in una stanza sulla cui parete è appeso, in bella mostra, un quadro tutto rosso. L’impeto sessuale fra i due si scatena in modo eccessivo, si tratta pur sempre di un rapporto fuori delle righe essendo entrambi dei ‘’mostri’’. La passione si scatena e nella foga le unghie affilate della donna tracciano degli squarci nella tela rossa. Il quadro appare ora nella sua essenza: i famosi tagli della pittura di Fontana. I simboli continuano, mentre il film è descritto con una fotografia scura, come deve essere un dark dell’epoca, il regista la segna e la macchia con tanto rosso, vivo, acceso, passionale. Il finale è una babele fantastica, dove mostri di tutti i generi si confronta sotto gli occhi spenti di una vecchia serva. La finalità è di far affiorare l’anima struggente di creature deformate ma pur sempre di derivazione umana. Nonostante la trasformazione in vampiro, il cuore romantico di Barnabas, prevale sulle sembianze, indipendentemente dal tempo. “Tu non sai amare, questa è la tua maledizione” è la ragione della fuga del vampiro Barnabas dalla stupenda ma fredda strega. Con una fotografia ideale, dei dialoghi attinenti, la pellicola procede verso il senso giusto. Non c’è la perfezione nel tratteggio dei caratteri, perché a volte l’autore è distratto dalla meticolosità, ma il risultato è ottimo, sia per ironia, sia per il gusto vintage dell’opera.