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Tomboy
Anno: 2011
Regista: Céline Sciamma;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 17-10-2011


“Basta stringere i pugni, chiudere gli occhi e poi colpire.” I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno fatto proseliti. Le loro opere rappresentano oramai un genere a parte: quello di adolescenti difficili ma con una approccio alla vita senza ribellione. Sono dei maestri, dei procacciatori di premi e di critica. E’ uno stile molto francese, perciò è in quella terra che i primi adepti iniziano a fiorire. La regista Céline Sciamma con Tomboy saccheggia dalle loro pellicole senza imbarazzo. L’originalità è una digressione tipicamente occidentale; in oriente copiare è una dote, un’abilità, un dono artistico; l’opera deve essere premiata per il suo risultato, indipendentemente dalla novità. Perciò Céline Sciamma è brava. Siamo in Francia. Una bella famiglia appena trasferitasi in un grande palazzone. Padre, madre in cinta e due belle bambine femmine. All’inizio s’indugia con tanta bella luce, e inquadrature panoramiche sul nucleo familiare. Una vita spensierata e serena. I genitori si amano, non c’è nessun serial killer alle porte, nessuno stupro familiare nel passato e nessuno skinhead razzista in fila. Laure è la bambina più grande, deve andare alla quinta elementare. Laure non gioca con le bambole, non vuole fare danza come la sorellina, lei vuole dedicarsi al calcio, a fare pugni come i maschietti del quartiere. Ai nuovi amici si presenta come Michaël. Infatti, Laure ha un look ed un atteggiamento virile. Con un taglio di capelli corti e vestita con uno skateboarder si precipita ad affrontare i suoi nuovi amici con molta mascolinità. Anche le piccole, ma non superficiali, differenze fisiche fra maschietti e femminucce sono superate con degli stratagemmi vincenti. Tutto funziona alla perfezione, Michaël/Laure si trova perfino una ragazza, ma l’incombere della calamità è da noi percepita con imminente. Come nei fratelli Dardenne, c’è una situazione normale, un disagio profondo prevalentemente psicologico e fisico, un crescendo di normalità ed un suo successivo sconvolgimento. Il tutto termina con una soluzione temporale ed una libertà di soluzione per lo spettatore grazie al finale “work in progress”. In Tomboy lo svolgimento è lo stesso: il bosco, le foglie tremolante per la leggera brezza, le inquadrature degli alberi, della luce come riflessione umana e l’opprimente senso di sbagliare. Il tutto è raccontato con un linguaggio riflessivo, moderato, calmo. Di diverso in Tomboy è la fisicità. Céline Sciamma induce sul corpo della ragazza, un corpo infantile, acerbo. Michaël/Laure lo guarda con stupore, non lo riconosce come proprio. Le scene nel bagno servono per rafforzare il malessere della bambina ed il nostro: un viso, un look ed un atteggiamento psicologico da ragazzo nel corpo di una bambina. L’effetto è provocare una reazione a se stessa e allo spettatore: apprendiamo la sofferenza, la confusione dei ruoli, l’incomunicabilità fra corpo e anima. Eppure siamo di fronte ad una bambina amata, con una famiglia presente, affettuosa, con un padre gentile e rispettoso della figlia. Non c’è nulla di malato. L’umiliazione finale sarà la conclusione di un percorso predestinato. Per tutto il film, stacchi, montaggio, linguaggio accrescono la tensione. Ma il tutto nel suo alveo psicologico. Come nei Dardenne, l’adolescenza, la pubertà sono approcciate con un taglio psicologico. Gli adolescenti non sono degli indignados e tanto meno dei black block, ma soltanto persone con difficoltà desiderose di essere amate. La ricetta è semplice, la soluzione pure: diamo ai ragazzi, ai bambini tanto amore e tanta tenerezza. I perni della regista sono la fisicità, la chiarezza psicologica; i mezzi per ottenerli sono un linguaggio chiaro, pulito, con un montaggio accattivante, degli stacchi discordanti, e tanta ma tanta dedizione dedicata alla giovane attrice.