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Il profeta - Un prophète
Anno: 2009
Regista: Jacques Audiard;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia; Italia;
Data inserimento nel database: 17-04-2010


Il profeta ha vinto il Gran Premio della Giuria di Cannes nel 2009. La vittoria non è solo di un regista, Jacques Audiard, che ha saputo raccontarci, senza sconti, una vita nel carcere ma anche di un genere, quello del prison movie. Ultimamente oltre il Profeta, in galera ci siamo andati anche per il bel Celda 211 a Venezia e in America con Jim Carrey e Ewan McGregor nel delizioso I Love You Phillip Morris. Si sa bene che non sono i primi film su un carcere e non saranno gli ultimi. La prigione è il luogo chiuso per antonomasia. Il posto dove gli incontri fra persone violente e pronte a tutti contribuisce a creare una atmosfera forte, senza speranza, dove si può sentire il criminale che si avvicina e i cattivi odori che esistono. Il carcere è claustrofobia e paura insieme. Audiard ci vuole descrivere la prigione, i suoi personaggi, le sue abitudini quotidiane. I vizi, le corruzioni, le difficoltà. Che sono tante. Non ci racconta bontà, perché non esiste. Questi personaggi non sono in galera perché innocenti, vittime del sistema giudiziario. No, questi sono dei veri criminale. I pesci piccoli gestiscono piccolo spaccio di droga all’interno del carcere e corruzione. I massimi esponenti, nonostante siano in carcere, hanno rapporti con mafia, sequestri di persone, e omicidi. Tutti cercono di sopravivere e non è facile. Anche chi sembra avere maggior comodità, e può muoversi con facilità soffre e si sente minacciato e solo. L’interno è sporco, fatiscente, squallido. Non soolo fisicamente. A tutto questo contribuisce i rapporti fra i vari clan di carcerati e quelli con i guardiani. Anche loro non sono delle mammolette. Fanno parte del sistema, anche loro devono sopravivere. Audiard ci fa entrare in carcere con Malik El Djebena (il bravissimo Tahar Rahim). E’ un arabo ma non si interessa di religione, neppure vuole unirsi al clan degli arabi incarcerati. Anzi in carcere lega con i Corsi, ma non è ben visto neppure da loro e quindi si pone al limite da entrambi i gruppi. I gruppi all’interno del carcere sono essenziali per poter sopravvivere. Una protezione è necessaria anche per poter compiere le più banali faccende quotidiane. Anche quando i personaggi possono ottenere dei permessi si portano il carcere fuori. La prigione è dentro di loro. Anche se camminano fuori è come se fossero dentro la loro cella. Non riescono a liberarsi neppure per un momento del loro essere carcerati. E così sarà per tutto il film. Malik apprende all’interno del carcere i grandi meccanismi del crimine. Ecco che il carcere diventa scuola. Riesce ad imparare. Esce fortemente diverso da quando è entrato. Ora è diventato un vero mafioso che sa gestire i suoi affari con la professionalità appresa dai corsi. La parabola ascendente di Malik e della sua personalità è il pezzo forte del film. Il suo disegno psicologico, la sua caratterizazione sono frutto di grande abilità. Il suo personaggio è delineato dal regista con una bravura unica. Anche senza il carcere Malik avrebbe avuto una sua storia profonda. Un vero protagonista. La storia ed i personaggi sono veri. Non c’è la più banale finzione. Anche il sangue che sgorga è vero e noi siamo li a guardarlo, non possiamo farne a meno. Anche noi siamo dentro ad un carcere. Sentiamo il rumore delle grate che si aprono e si chiudono. Mangiamo il cibo schifoso della mensa e abbiamo paura. Non esiste amicizia e valori. César Luciani, vecchio boss del carcere e protettore di Malik, caduto in disgrazia proprio per mano sua rimane solo. Proprio con la sua solitudine che il film si conclude.