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Chicken run - Galline in fuga
Anno: 2000
Regista: Peter Lord; Nick Park;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: GB;
Data inserimento nel database: 25-12-2000


Chiken run

 

Chiken run


Galline in fuga


soggetto e regia
Peter Lord, Nick Park

scneggiatura
Karey Kirkpatrick

organizzazione
Carla Shelley

musica originale
John Powell e Harry Gregson-Williams

produzione
Aardman Pathé-Dreamworks

distribuzione
Uip


 

 

«I recinti sono nella vostra testa», dice Gaia di fronte alla ottusità delle compagne di sventura, mosse dalla volontà di accettare le scorciatoie che il capitalismo impone per eternarsi, distribuendo le briciole – magari raddoppiando le razioni per mettere all’ingrasso i predestinati – e facendo credere di offrire il migliore dei mondi possibili; situazione che non si stenta a credere, vista la rassegnazione che alberga nelle fabbriche. Un mondo fatto di sfruttamento (la produzione industriale di uova somiglia alle batterie di ragazzini pakistani: per digerire i pranzi natalizi andate a vedervi Iqbal), mancanza di libertà (un giretto nelle carceri turche è un incubo ben peggiore della visione di Il Muro di Güney), eliminazione degli esuberi («Edwina se ne va in vacanza?», bercia la più svampita delle galline, che sferruzza come una vecchia zia e non comprende nemmeno l’eliminazione thatcheriana dell’improduttiva collega), serrate (la Vauxhall chiude a Luton inserendo i suoi 2500 operai nella macchina-forno crematorio nazista attivata dall’impresa Twiddy’s della kapò del lager da cui la gallina Gaia tenta la fuga ripetutamente nei primi minuti del film, nel silenzio dei lavoratori dipendenti in Europa dei marchi unificati GM-Opel-Fiat, paurosi che tocchi a loro, schierati in fila nella trepida attesa della scelta del Mengele di turno, si chiami Paolo Fresco o Nick Reilly); eppure di fronte alle ossa della gallina-operaia sgozzata con le ombre di una mannaia degna della pubblicistica anarchica dei bei tempi e di infiniti film di denuncia dell’orrore nazista una compagna arriva a dire "in assemblea" che «Il nostro è pur sempre un mestiere: se avesse trascorso più tempo a deporre uova ["lavorare" in linguaggio umano] e meno a fuggire [da tradursi "lottare"], sarebbe ancora viva». Dove si scoprono i meccanismi che portano a marce di 40000 stupidi internati, a cui poi è toccato a loro volta passare per il camino.


 

L’uso di caratteri stereotipati in famosissimi film consente di procedere per allusioni, cariche però di significati: l’allevatore fa il paio con l’Eichmann di Lo specialista, poiché è ottuso esecutore, ma ingranaggio essenziale per la speculazione di Hanna Arendt sul radicamento dell’autoritarismo nella fedeltà assicurata da funzionari deresponsabilizzati dall’esistenza di ordini, anche i più atroci. E anche la massa, così come viene in rilievo dalle analisi di Canetti e Jünger, è descritta nel pongo da situazioni in cui lo schermo è riempito da cumuli di plastiline, e tuttavia ciascuno ha una caratterizzazione precisa, un ruolo coerente, sintomo di una attenta sceneggiatura.
In questo film, rivolto agli adulti perché rimeditino sulla loro condizione reversibile e ai giovani perché non diventino come gli anziani e si rivoltino allo stra-potere del capitale, si sentono più volte echeggiare parole d’ordine dimenticate, eppure non si avvertono grevità retoriche, anzi si accolgono i predicozzi sorridendo perché si riconosce l’intento citazionista inserito in situazioni molto divertenti, che svelano lo sporco lavoro del sindacalismo confederale ("Digli quello che vogliono sentirsi dire", suggerisce il galletto-pompiere quando è ancora privo di scrupoli), ma rinverdiscono anche gli slogan di un passato passionario: «O saremo galline libere o moriremo nell’intento». Si avverte già all’inizio che i dialoghi non saranno quelli degli intenti pacificanti di Full Monthy o Grazie Signora Thatcher, poiché si inneggia subito all’organizzazione dal basso: «Le galline sono le bestie più stupide: non complottano, non cospirano e non sono organizzate», erronea supponenza del potere, subito smentita dall’assemblea nello stalag 17.


E l’intento si ammanta di epicità quando va a cercare nell’immaginario collettivo di film di quaranta anni fa i riferimenti: Stalag 17, citato con evidenza nei momenti corali di assembramento e nell’aspetto delle baracche e dei letti a castello copiati dal campo nazista inscenato da Wilder, è del 1953, e a questo capolavoro l’animazione di Aardman è debitrice soprattutto per lo spirito scanzonato e non a caso riprende anche il tema dei topi, momento commentativo e rilassante.


Di dieci anni successivo è La grande fuga di Sturgess (The Great Escare, 1963), anche in questo caso la chiave comica è essenziale, ma media nel nostro ricordo la componente eroica, al punto che Rocky Bulboa (il gallo volante che il sarcasmo britannico fa provenire «dalla terra dei liberi e patria dei valorosi») fugge su una motocicletta come Steve McQueen, personaggio a cui palesemente si rifà; il vecchio ufficiale della Raf ricorda a tratti Il ponte sul fiume Kwai (1957), quando passa in rassegna le truppe internate con la fierezza tutta britannica. Ma è soprattutto Il volo della Fenice (Flight of the Phoenix, 1965) il testo maggiormente saccheggiato: il gallo cedrone, nonostante le millanterie da miles gloriosus, era la mascotte nella guerra anti-nazista, però si improvviserà pilota provetto come James Stewart nel film di Aldrich; la gallina scienziato parla con accento tedesco, come il progettista di aeromodellismo caduto nel Sahara; ma ad avvicinare lo spirito dei due film sarà soprattutto l’emozionante volo verso la libertà, «là fuori, dove non c’è allevamento», in una città del sole, dove dopo i titoli ci si può concedere il lusso di speculare sulla preesistenza dell’uovo alla gallina o viceversa, rinverdendo la tradizione dei film di animazione impegnati, come già fu per i bakstage di un altro film komunista: AntZ. Ma prima bisogna conquistarsi la fuga dal capitalismo.


Quel decennio assunto come bagaglio di immaginario comune dagli animatori britannici e la scelta di prendere di peso caratteri e situazioni da quel periodo, in cui si andava creando una coscienza di classe attraverso l’epopea della lotta al nazismo, non sono casuali: ci sarebbe stato anche il campo di concentramento decadente degli anni 80 di Furyo, ma viene escluso dall’intento sancito dalla scelta di storie pervase da ottimismo nella vittoria finale e provenienti da un periodo che preparò le grandi lotte di liberazione del mondo del lavoro e non successive è parte del messaggio di speranza che si vuole trasmettere, soprattutto ai giovani. Poiché se immediatamente si ride dell’antropomorfizzazione delle galline, successivamente il ribaltamento delle situazioni filmiche riferite al nazismo nel rimando iconico e alla condizione del lavoro salariato nella potenza dei dialoghi, rendono agghiacciante l’omologazione della condizione umana alle batterie avicole.