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I quattrocento colpi - Les quatre-cents coups
Anno: 1959
Regista: Francois Truffaut;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

I quattrocento colpi. Francois Truffaut. 1959. FRANCIA.

Attori: Jean-Pierre Léaud, Albert Rémy, Claire Maurier, Patrick Auffay, Georges Flamant, Jeanne Moreau, Jean-Claude Brialy, Jacques Demy, François Truffaut.

Durata: 93’

Titolo originale: Les quatre-cents coups

 

 

Parigi. Il giovane dodicenne Antoine Doinel non è proprio uno studente modello e per questo motivo è spesso bersaglio dei suoi professori. A casa poi, anche la madre lo tratta male e solo il padre, appassionato di gare di rally, gli concede ogni tanto un sorriso. Tutti e tre vivono una situazione disagiata dividendo un piccolo e claustrofobico spazio. Una mattina lui e il suo amico Rène marinano la scuola per andare a cinema ed al luna park e, in fin di mattinata, Antoine scopre la madre con un altro uomo. La mattina dopo un compagno di classe informa i genitori che il figlio ha marinato la scuola e questi, presentandosi in aula, lo schiaffeggiano davanti ai compagni. Antoine decide di non tornare a casa e Rène gli procura un posto dove dormire nella stamperia dello zio. La mattina dopo però, a scuola, la madre va a riprenderlo ed a casa lo perdona. Dopo aver letto un romanzo di Balzac, il giovane Antoine ne riprende alcuni passi per il compito di francese, ma il maestro lo spedisce dal preside accusandolo di plagio. Antoine decide allora di fuggire nuovamente e Rène si fa espellere da scuola per stare con lui. Lo ospita questa volta in casa sua. Per guadagnare qualche soldo decidono di rubare la macchina da scrivere nell’ufficio del padre di Antoine, ma poiché non riescono a venderla, tornano per metterla al suo posto. Qui Antoine è scoperto dal custode che, bloccandolo, avverte il padre. Non sapendo più che fare, l’uomo decide di affidarlo alla giustizia e Antoine viene così condotto in un riformatorio. Trascorsi diversi giorni, dove il ragazzo continua ad essere punito al primo sbaglio, viene a trovarlo la madre che però non ha intenzione più di perdonarlo. Approfittando un giorno di un momento di distrazione, Antoine scappa dal riformatorio e raggiunge il mare.

Primo lungometraggio per il regista francese e primo riconoscimento di critica e pubblico con un premio alla miglior regia al Festival di Cannes. Esponente principale del movimento della Nouvelle vague, che incominciò proprio con questa pellicola e con quelle dello stesso anno firmate dagli altri autori legati alla rivista di critica Cahiers du cinèma, alla quale il regista dedicò l’opera (più in particolare al critico Andrè Bazin, fondatore e padre di questa nuova corrente). Parafrasando il titolo originale (faire les 400 coups sarebbe più o meno fare una vita agitata o ancor meglio fare il diavolo a quattro) si può ben capire che quella di Antoine Doinel è una storia destinata alla libertà, ma che per essere raggiunta necessita non solo del superamento di diverse prove, ma soprattutto un taglio con il passato (rappresentato dai genitori) e con la cultura che lo circonda (rappresentato dalla scuola). Il piccolo Antoine, infatti, raggiunge, dopo un’estenuante fuga (ed un lunghissimo cameracar), il mare che non aveva mai visto in vita sua, il limite della Francia dunque, l’orizzonte dei suoi sogni, ma vi arriva solo a discapito della sua condizione di fanciullo non più (e forse mai stato) come gli altri. Fortemente personale, il primo lavoro lungo di Françoise Truffaut è un ottimo esempio di capacità narrativa, che ha ancora qualche inceppo narrativo (l’uso abbondante di dissolvenze incrociate per passare da un tempo all’altro) ma che mostra tutte le potenzialità dell’esordiente talentuoso. Egli, infatti, non solo è in grado di non scadere in manierismi o in eccessi mielosi che il soggetto poteva far emergere, ma soprattutto si è mostrato capace nel gestire (a differenza dei suoi colleghi) un gruppo di attori molto giovani, presto diventati simbolo della sua lunga filmografia. Il piccolo Antoine, infatti, è interpretato dal bravissimo Jean-Pierre Léaud, non solo attore feticcio del regista, ma principalmente Antoine Doinel, personaggio riapparso sul grande schermo più volte, in una sorta di continuum che è stato capace di crescere assieme all’uomo Léaud. Tornando al film, nemmeno una volta il regista ha evitato di mettere in campo la sua passione per il cinema (costante che lo trasformerà nel più citazionista di tutti gli autori della nouvelle vague) tanto da renderla spesso quasi protagonista della storia, al passo del giovane ragazzo. Non possono non rivedersi, infatti, nel gruppo di ragazzi quei fanciulli che, ugualmente mossi da uno spirito ribelle, avevano reso celebre uno dei pochi lavori del grande Jean Vigo, Zero in condotta (1933) e che è considerato uno dei lavori migliori della cinematografia francese (“Non mi importano i voti, ma la sua condotta” commenta la madre di Antoine davanti al preside). I quattrocento colpi non è dunque solo un film di ribellione, ma anche un gesto d’accusa per un paese che non è in grado di ripetere con i propri figli altro che i propri errori, con parenti distanti (la madre avrebbe voluto abortire) ed istituzioni sorde e monolitiche, concentrate a tramandare la propria attitudine conservatrice agli alunni. È quindi un mondo che soffoca quello dal quale il piccolo Antoine fugge (il mare è, infatti, un simbolo di fuga, apertura) dove la tour Eiffel è solo un’immagine lontana del progresso e dell’identità francese (tutte le inquadrature iniziali) e dove per i ragazzi il destino sembra aver chiesto un momento di pausa. Riprendendo un tema molto caro ai cineasti francesi (e qui ritorna soprattutto il regista Jean Vigo, ed in particolare L’Atalante (1934) il suo più celebre lavoro) il mare è anche usato come elemento anarchico, movimento fluido al quale si appresta il giovane Antoine, in contrasto al movimento borghese della terra (rappresentata dalle immagini della torre Eifell) dal quale fugge. Ritornando alle capacità del regista, uno dei momenti più toccanti è proprio il suo sguardo sui volti dei bambini davanti allo spettacolo delle marionette, capace di cogliere momenti di tenerezza viva e toccante, che non hanno pari in altre realizzazioni cinematografiche. I genitori di Antoine invece non si sforzano nemmeno di capire cosa il figlio voglia dalla vita, non riescono a comprendere come educarlo (ma soprattutto come andargli incontro) e quest’infanzia incompresa diventa allora il tema principale dell’opera. Per certi versi ha qualcosa di Sciuscià (1948) di Vittorio De Sica (forse il finale che più che una speranza sembra un abbandono) che non è solo nel soggetto dei fanciulli, ma nell’incapacità da parte della società di dedicarsi a loro, e quindi nella distanza generazionale nata dal dopoguerra e che ha cambiato vite e percorsi della maggior parte dei figli di coloro che l’hanno vissuto. A ciò si aggiunga anche lo stile scelto, molo vicino proprio al neorealismo (sebbene ne rielabori molti elementi mantenendo l’aspetto documentaristico) ma che si distanzia da questo per la costruzione simbolica di alcune sequenze. Come accadrà spesso nel cinema di Truffaut, cinema e libri sono una fonte d’ispirazione ma anche una via di fuga da una realtà a volte ostile, a volte sorda, a volte distante dai suoi protagonisti. È questa soprattutto un’autocitazione, essendo anch’egli un ragazzo che faceva il diavolo a quattro, e che il critico Andrè Bazin salvò facendogli apprezzare l’amore per l’arte e soprattutto per il cinema. Molto bella la fotografia in dyalscope (equivalente francese del cinemascope) di Henri Decaë che utilizzò un bianco e nero vivo e non troppo impastato. A differenza dei suoi colleghi però, Truffaut dimostra una maggiore propensione al “conservatorismo” cinematografico, al proseguimento della tradizione narrativa/visiva/visionaria, se si considera che per esempio Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard cercava invece di sovvertire i canoni cinematografici per riconoscerne le regole (e che in fondo Truffaut fa solo nel finale consegnando al piccolo Antoine lo sguardo in macchina, lo sguardo verso il pubblico). Tra i diversi camei quello dello stesso regista, quello di Jeanne Moreau (la donna che perde il cane) e del regista Jacques Demy (nei panni del poliziotto). Antoine Doinel/Jean-Pierre Lèaud sarà protagonista di diversi altri film diretti dallo stesso regista, diventando così un caso unico nel cinema: L’amore a vent’anni (1960) (con l’episodio Antonio e Colette); Baci rubati (1968); Non drammatizziamo…è solo questione di corna (1970); L’amore fugge (1979).

 

 

Bucci Mario

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