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Cast Away
Anno: 2000
Regista: Robert Zemeckis;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 18-01-2001


Cast Away di Robert Zemeckis

 

regia
Robert Zemeckis

sceneggiatura
William Broyles

fotografia
Don Burgess

montaggio
Arthur Schmidt

scenografia
Rick Carter

musica
Alan Silvestri

costumi
Joanna Johnston

produzione
Dreamworks SKG - Image Movers

provenienza: USA

"Non c’è molto tempo e noi viviamo e moriamo in base al tempo. Non commettiamo l’errore di voltare le spalle al tempo"





interpreti:
Tom Hanks . . . . Chuck Noland
Helen Hunt . . . . . . Kelly
Nick Searcy . . . . . . Stan
Chris Noth . . . . Jerry Lovett
Lari White . . . . Bettina Peterson
Wilson . . . pallone da pallavolo

 

 


In What lies beneath Zemeckis incentra il racconto sull'ossessione per l'immagine: fotografie cadono una quantità sospetta di volte per denunciare che si sta tentando di focalizzare l'ambizione smodata del protagonista, molto ben espressa anche negli ambienti descritti alla perfezione nel loro nitore, spazzato nelle immagini flou ad esempio della stanza da bagno dotata di splendida vasca con piedini chippendale dapprima da brezze e poi da venti di bufera (la stessa che scompiglia l'esistenza regolata dalla frenesia di recuperare tempo in Cast Away) che si scatenano nella camera da letto – una splendida bow window aperta però sull'interno – in cui le tende prendono a volare sollevando il sipario sul verminaio; la presenza attiva nelle immagini dello schermo dello stupido Forrest Gump gravitava attorno ad ogni momento della storia americana penetrandola profondamente, ora la Storia – in quel caso occupata dal singolo – viene abbandonata in Cast Away dalle vicende del singolo che esce dalla Storia in virtù della vecchia ossessione di Back to the Future, il tempo; e non è un'esperienza piacevole per un tipico soggetto che gode del presenzialismo occidentale, infatti al ritorno il suo dramma sarà essere rimasto tagliato fuori per quattro anni da qualsiasi comunità – una sorta di contrappasso per chi della lotta contro il trascorrere del tempo aveva fatto il suo credo, eliminato dal procedere del tempo per lui sospeso nel nulla di un'isola senza attrattive, priva di testimonianze estranee. E questo sentimento dominante di abbandono si coglie visivamente in quelle due plongée, tra i momenti migliori del film, che aprono e chiudono la lunga parentesi di naufrago: nella prima scopriamo un orizzonte tenebroso nella notte di tempesta successiva al disastro aereo. In essa la mdp si alza sempre più e indoviniamo dall'infinitamente piccolo puntino in mezzo ad un Oceano vuoto la sua disperata solitudine nel buio squarciato dai lampi. La seconda comincia ad alzarsi sui flutti nel momento in cui il naufrago è abbandonato anche da Wilson, il suo unico compagno, fatto del suo sangue, ma che più spesso coincide con lo sguardo dello spettatore.




Forse non esiste inquadratura dove non si faccia accenno o non sia lasciata traccia dallo scorrere del tempo: una pletora di orologi digitali, ciondoli la cui fattura e tradizione riporta all'Ottocento, meridiane tracciate sulla roccia, calendari primitivi, allusioni scritte ("The World on Time" è lo slogan della FedEx, nome della ditta di spedizioni per cui lavora Chuck).
È ancora lo scorrere del tempo che lo accoglierà al ritorno e si rivelerà con violenza non ritrovando in lei l'immagine della donna che aveva lasciato, ma che soprattutto lo aveva seguito come ritratto congelato di un’epoca della vita e religiosamente salvato nell'orologio del nonno, ma ormai fuori dal mondo presente superato da quegli eventi a cui Chuck non ha partecipato.

Il connubio tra foto e misurazioni del tempo nella poetica di Zemeckis si dimostra nell’oggetto più segnatamente fondamentale del film: la cipolla del nonno di Kelly. Come sempre – si pensi alla piuma di Forrest Gump – l’impianto narrativo è preciso come un orologio (è proprio il caso di dirlo) nonostante l'apparente effimera gracilità legata a passaggi aleatori, questo fondamento forte che permette di reggere all'intera struttura dei film di Zemeckis nasce dai dettagli di oggetti introdotti fin dall'inizio con il chiaro intento di segnalarli, elementi della narrazione già con l’intenzione di farli emergere all’attenzione degli spettatori, poiché poi verranno recuperati nell’economia dell’intreccio, ma trasformati; e poi sono loro a segnare velatamente la cifra della variazione nella percezione del mondo del protagonista, proveniente dall’incidenza dell’esperienza sull’immagine proiettata dagli oggetti stessi, che sembrano mutare a scena aperta, pur restando invariati nel dipanarsi della vicenda nei tre momenti in cui è divisa; essi si tramutano in qualcosa di diverso. In questo senso l’esempio più eclatante di trasfigurazione è il pallone, che per un regresso infantile è soggetto di una mimesi umana e poi in un guizzo di genialità diventa specchio e spettatore: cioè noi; però non è l'unico simulacro del naufrago, più sinistro è il fantoccio impiccato, spiegato solo alla fine (dimostrando come lo sceneggiatore sappia organizzare e risolvere tutte le storie introdotte). Perciò è affascinante non solo raccogliere i dettagli letterari come l’occhio di Moby Dick nella notte solitaria del non-ancora-vecchio e il mare, ma anche ricostruire l’enorme lavoro di struttura svolto: ammirevole la cornice che racchiude l’intero plot tra due inquadrature dello stesso crocicchio, di quelli tipici del profondo sud degli Usa, quelli dove si possono trovare musicisti che hanno venduto la loro anima blues al diavolo (da Walter Hill ai fratelli Coen, attraverso Honkytonk Man). Un incrocio che ha un doppio valore: è quello dal quale transita il furgone del pacco postale "che salva la vita" di Chuck il quale lo percorre a sua volta alla fine per consegnarlo, ma soprattutto è quello dove si opera una scelta, da cui dipende "una svolta" nella vita. Proprio questo aspetto sembra stare a cuore agli autori: l’aleatorietà del destino, lo sguardo a posteriori che fa ricostruire gli eventi cercando di immaginare dove collocare l’evento che ha condizionato una vita, un percorso narrativo, che finisce per assumere connotati letterari, non solo Melville o Da Foe, ma anche Conrad e Stevenson.


Ma soprattutto John Cheever per i rapporti con gli oggetti resi personaggi di un’America rurale (in grado di produrre ruspanti signorine in jeans e fluenti chiome rosse, cow-girl attraenti per il loro legame con la terra, nelle quali si può rintracciare forse qualcosa di quella terribile forza dell’isola) contrapposta alla civiltà tecnologica. Un tema quello dei possibili cambiamenti della storia in seguito a microeventi potenziali che sta alla base della saga di Back to the future e che non è l'unico elemento di coerenza del regista di Chi ha incastrato Roger Rabbit?. Infatti si direbbe che a fronte di un'analisi spietata della società americana, egli non trovi di meglio che cercare rifugio in quel profondo sud che l'ha generata, probabilmente pensando che sia avvenuto qualche incidente – tipo quelli descritti nella lotta contro il male di Back to the Future – a deviare il corso di un sistema giusto e fondato su genuini valori a cui tornare, quelli a cui si aspira sia alla fine di Forrest Gump, sia dopo essersi confrontati con una sperduta isola vuota, fisica riproduzione agli antipodi della società americana scremata di tutto il superfluo, che permette di individuare come valori ideali quelli di Gone with the Wind ("Domani il sole sorgerà" è una delle battute dell'epilogo che fanno una parafrasi della celeberrima battuta finale della vicenda di Rossella O'Hara) e del profondo sud.



Sono sorprendenti gli espedienti linguistici di un film che – come spesso accade ai prodotti statunitensi – fa parco uso di immagini statiche o di inquadrature più lunghe di una manciata di secondi (i pochi fotogrammi che in una sola inquadratura seguono lo svenimento di Kelly informata del salvataggio e rivelano contemporaneamente la presenza di un marito e un figlio: geniale sintesi), colpisce quando esce dagli schemi del montaggio di frammenti ravvicinati che esagerano il movimento rendendolo drogato e parossistico, mantenendolo naturale mentre compongono le situazioni. Uno di questi momenti linguisticamente originali è la descrizione della tempesta caratterizzata dallo schermo scurissimo che affida ai lampi l’impressione dell’immagine sulla retina, resa discernibile e ancora più inquietante per l’istantanea che produce a cui fa seguito il buio ancora più pauroso per i marosi che ha lasciato trasparire, titanici perché invisibili: esce dai canoni per gli stacchi sullo stesso asse che riprendono situazioni ogni volta diverse per l’impeto degli elementi.


Tuttavia già all’inizio il fotografo si è sbizzarrito a lasciare lo spettatore solo con le sue paure, molto più tenaci dei pezzi di bravura – puro mestiere – collazionati in What Lies Beneath, che fanno sobbalzare sulla poltrona: al buio ci aveva lasciati inopinatamente inseguendo una falsa soggettiva del pacco che funge da fil rouge. In realtà la sequenza s’inizia atteggiandosi a soggettiva per pochissimi fotogrammi, poi l’obiettivo dichiara la sua presenza affiancando il pacco e condividendo con lui pure l’oscurità del furgone, che ci accompagna all’incontro con il protagonista a Mosca, dove veniamo assaliti dalla frenesia scandita da onomatopee ("Tic tac" è l’intercalare ripetuto dal funzionario in carriera privo di scrupoli quando si tratta di guadagnare tempo, "L’uomo che aveva persino rubato una bicicletta a un bimbo disabile", racconta la leggenda aziendale), da spietati display digitali (18 27′) e da scommesse sul tempo (trascorrono 14 minuti dall'inizio della sontuosa e pantagruelica cena – in contrasto con la fame sull’isola – prima che venga formulata la domanda che permea tutto il film, se si fosse sviluppato in un certo modo) o impostazioni convenzionali di fuso (ora di Memphis). Sono tutti meccanismi ad orologeria che appartengono al primo contesto, quello costituito da un passato artificioso reso estraneo dalla natura irriducibile ai limiti imposti dall’uomo: l’orologio assume un altro valore già al momento del naufragio.

Il secondo momento, quello che racchiude i quattro anni di limbo lontano dal mondo imprigionato in un ucronico luogo utopico, nel senso che è fuori da rotte e dall’attenzione dei media e quindi inesistente, è la sezione in cui gli oggetti diventano soggetti di un animismo primitivo che li muterà dall’interno. L’orologio diventa feticcio che sono ancora sull’aereo, legame con il passato una volta che Chuck è solo nelle notti raminghe sotto le stelle immote, diventa volto icona nella grotta ("Mi rattrista perdere Kelly, ma son contento che fosse con me sull'isola"), luogo di deposito del passato da archiviare, troppo presente – in assenza – tanto da risultare trasfigurato al ritorno spaesato al punto che si può finalmente dividere il destino della foto di Kelly da quello del tempo ritrovato (l'orologio non funziona per il tempo calcolato dalla società americana): una nuova rinascita dopo aver dovuto recuperare manualità e arnesi per bere una noce di cocco fino a conquistare novello Prometeo il fuoco ("Wilson, non è che hai un fiammifero?").



Il terzo momento di cui è composto il film è la dimostrazione del teorema: il segno che l'esperienza lascia come retaggio sull'uomo è la trasformazione anche di lui come avviene per gli oggetti.