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Vito e gli altri
Anno: 1991
Regista: Antonio Capuano;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

Vito e gli altri. Antonio Capuano. 1991. ITALIA.

Attori: Nando Triola, Giovanni Bruno, Mario Lanti, Pina Leone, Giuseppina Fusco, Antonio Iaccarino

Durata: 82’

 

 

Napoli. Anni ’90. Tra mille botti che assordano la città partenopea colta durante la festa del capodanno, ed il vociare di centinaia di televisori accesi, non si riconoscono due colpi in particolare, quelli che il padre di Vito ha riservato per sua madre e suo fratello. La pistola è puntata contro lo stesso Vito, un bambino di undici anni, ed a impugnarla è ancora suo padre, che però lo risparmia. Entrambi commentano l’episodio nel momento in cui è avvenuto: il padre dice di aver bisogno di aria, e il figlio gli ricorda che gli aveva promesso il motorino. Ecco allora che dopo la televisione, e la pistola, emerge forse il vero simbolo di un nuovo “sorpasso”, il motorino, per i più giovani sinonimo di libertà e fuga, identità e potenza (meccanica), di una generazione cresciuta ed educata dalla televisione, figlia cioè di quel processo edonistico sviluppatosi particolarmente durante gli anni Ottanta, gli anni dei lustrini e delle spalline, e che continua ad essere mantenuto in vita dall’immagine pubblicitaria che vende sogni a chi vive nella finzione dell’esistenza. Il motorino dunque, come l’auto sulla quale Gassmann sfrecciava attraversando il boom del dopoguerra, per una metafora che nelle mani di Antonio Capuano (con questo film esordiente dietro la m.d.p.) diventa più cruda, senza censura, senza l’artificiosità del linguaggio cinematografico (il film infatti rincorre la negazione della consueta narrazione cinematografica) senza perdere di vista l’obbiettivo di raccontare una storia vera: quella della maggior parte dei bambini abbandonati alla sola educazione della strada (come aveva già fatto Pier Paolo Pasolini e la sua poetica riflessione sul reale). Dal giorno dell’omicidio di sua madre e del fratello, Vito viene affidato a zia Rosetta, parente incapace a dare alternative, a mostrargli un’altra via, e così incomincia una vera e propria scalata verso i vertici ideologici più alti della delinquenza organizzata, dando forma ad una propria gang, costruendo un proprio regime di regole, sulla falsa riga di quelle degli adulti (i ricchi devono morire; bisogna farsi la propria camorra; la televisione è più importante della mamma; quando rubi non devi aver paura; bisogna provarci gusto nel fare le cose; diventare boss). Da quell’omicidio famigliare dunque, è tutto un crescendo di episodi che dai furti arrivano allo spaccio, ed infine tornano all’omicidio. È una catena di atti delittuosi senza soluzione, perché non è la giustizia che può porre fine a questo processo, ma la comunicazione e gli interlocutori. Chi sono infatti gli “altri” cui fa riferimento il titolo? Sono i compagni di Vito in questa tragedia, ma soprattutto sono persone/cose che stanno allo stesso mondo, probabilmente nella stessa maniera: televisione, progresso, immondizia, videogiochi, avvocati, violenza, consumismo, il quadro cioè di una società della quale Vito è solo il simbolo, l’icona (sebbene il regista abbia cercato in tutti i modi di evitare questa cosa, facendo confessare più ragazzi, fermi all’incrocio, con la loro presenza sul territorio), Vito è forse un fiore all’occhiello che i media fagocitano senza troppe preoccupazioni (le interviste al ragazzo dopo il riformatorio). Lo sguardo del gruppo che si rivolge alla città, illuminato dal sole meridionale e rivolto verso la baia napoletana ormai completa ai loro occhi solo con l’immagine del grande complesso di Bagnoli, è uno sguardo che non dà la possibilità ai bambini di vedere un’alternativa. Telenovelas (soap opera – opere per vendere detersivi) e omini digitali armati di pistole, il video educa i ragazzi, e così il cinema, nelle mani di Antonio Capuano cerca di fare la stessa cosa, mettendo in luce però proprio i punti critici dell’immagine stessa, e della mancanza di contenuti nelle sue capacità comunicative. Facendo un discorso più ampio sul panorama cinematografico napoletano, il film evita il fascino popolare che ha contraddistinto la maggior parte dei lavori realizzati in questo capoluogo, anzi riesce, attraverso la storia di questo bambino (e dei suoi compagni) a farne un discorso di più ampio respiro, che potrebbe quindi essere ripreso, tale e quale, per la maggior parte delle città meridionali. Napoli come Bari dunque, come Palermo, come Reggio Calabria, ma anche come tante realtà periferiche delle più sviluppate metropoli del nord Italia, per raccontare di un abbandono, il cui punto di riferimento è prima di tutto la televisione (presente spesso, forse sempre, in tutte le case e luoghi chiusi in cui entra la m.d.p.), sorta di nuova educazione famigliare, che viola però la sfera del privato, e ne ruba (occupa) soprattutto il tempo. È un effetto di violenza inconscia che viene fatto ai bambini (e che oggi viene ripetuto invece e perpetrato con assoluta coscienza). Delle pellicole realizzate su questo tema, di disagio e infanzia, credo che il film abbia la medesima forza de I figli della violenza (1950) di Luis Bunuel, non solo per l’immagine/metafora dei corpicini che affondano nell’immondizia (nel film messicano è il luogo dove finisce il cadavere di uno dei protagonisti, nel film napoletano è addirittura oggetto di divertimento per alcuni bambini che vi si lanciano) ma perchè riesce a far emergere il contesto sociale, l’ambiente originario, del quale i protagonisti diventano forse solo un pretesto drammaturgico, figli della violenza appunto. Nel film di Bunuel non c’è la televisione, ma emerge forte lo stesso senso di abbandono, indifferenza, lontananza e silenzio, al quale i bambini reagiscono con la coesione di infanzie che si ribellano, seguendo l’esempio degli adulti (nel film di Capuano soprattutto), in un processo che si esaspera ad ogni passaggio generazionale. Che quello nel quale il regista Antonio Capuano ci riconduce, ancora una volta, sia l’inferno, lo dice apertamente in testa, con la citazione dantesca, cui nessuno sfugge, tanto che il mare in lontananza, come meta che ne I 400 colpi (1959) di Françoise Truffaut simboleggiava la fuga disperata dell’infanzia verso un destino migliore, qui è ostacolata proprio dalle costruzioni industriali che a Napoli l’ha resa vittima. Il regista non dà risposte, pone domande di fronte alla realtà (così come pone la macchina da presa di fronte ai fatti), come l’utilizzo della detenzione minorile, capace di distribuire la febbre della delinquenza proprio perché antieducativa e marchiante (come il simbolo del tatuaggio, e dei cinque punti che contraddistinguono chi è stato dentro). Prima di essere aggressori i bambini sono aggrediti, dalla televisione, dai palazzi, dalle pubblicità, dalla necessità del denaro, e spogliati della loro infanzia, della possibilità di giocare (luna park come surrogato del gioco ma anche del senso del denaro), diventano strumenti per diffondere il male. Sul senso del film dunque, nessuna possibilità di uscita, perchè come recita la voce fuori campo di una bambina, i film sono solo di due tipi, belli se finiscono con un bacio in bocca, brutti se finiscono come la vita, che è una latrina. È forse anche un gesto di difesa quello del regista, di messa in guardia, ma lo sguardo dei ragazzi sulla baia di Napoli, poiché ripetuto due volte, dimostra che su quei bambini una luce diversa poteva battere, ma solo lontano da quell’inferno dantesco. Proprio perché non è cambiato nulla dal Messico degli anni Cinquanta, dalla Roma degli anni Sessanta alla Napoli degli anni Novanta, lasciate ogni speranza, voi che entrate dunque, perché le cose stanno ancora in quel modo. Un film che fa riflettere sul presente, sulla base delle esperienze del passato, immaginando un futuro diverso per tutti i bambini, il più lontano possibile dagli errori degli adulti.  

 

 

Bucci Mario

[email protected]

 

 

 

Uno spunto per il dibattito previsto dopo la proiezione: una riflessione sul tatuaggio in carcere, alla sua immediata riconoscibilità visiva, e il suo significato comunicativo: secondo gli studi sul processo di detenzione e la riconoscibilità della colpevolezza di un delitto, spesso si è caduti nel difetto della discriminazione. Chi era tenuto sotto regime di detenzione (si pensi ai lebbrosi, ai folli, ai delinquenti, ai barboni) era spesso marchiato, o macchiato, di una colpa cui era difficile disfarsi. Si pensi ad esempio ad un estremo caso figurativo della colpa nelle culture in cui si amputavano le mani ai ladri, proprio per questa necessità di riconoscere il delitto nella percezione (immediata) visiva della persona (ma anche il senso del tatuaggio nei campi di concentramento). Con lo sviluppo delle scienze sociali, il percorso si è man mano evoluto fino a che si è compreso che la riconoscibilità immediata, tramite la percezione visiva, della detenzione (o del giudizio di colpevolezza) era un atteggiamento discriminatorio, e si è proceduto verso al strada della cancellazione di questo atteggiamento. La malavita, perché caratterizzata invece da un forte senso di appartenenza (famigliarità), ha mantenuto per se stessa questo processo (sicuramente tribale) in una vera e propria presa di coscienza della propria auto-discriminazione, come fenomeno di estraneità alla società. Ciò che una volta veniva imposto ai detenuti per essere riconoscibili (e costantemente giudicabili) dei delitti commessi, la malavita lo impone a se stessa attraverso i simboli tribali del tatuaggio e della sua immediata percezione visiva.