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I figli della violenza - Los olvidados
Anno: 1950
Regista: Luis Bunuel;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Messico;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

I figli della violenza. Luis Bunuel. 1950. MESSICO.

Attori: Estela Inda, Miguel Inclán, Alfonso Meija, Roberto Cobo, Alma Delia Fuentes, Mario Ramirez, Javier Amezcua

Durata: 88’

Titolo originale : Los olvidados

 

 

Città del Messico. Un gruppo di ragazzini, capeggiati dall’appena uscito di prigione Jaibo, il più grande di tutti, semina il terrore per le affamate strade delle periferiche baraccopoli. Tra loro, Jaibo fa affidamento sull’amico Pedro, figlio non voluto di una vedova, e al fratello di Metche, entrambi figli di una donna malata che vive con l’anziano padre. Sicuro che ad accusarlo e a fargli fare la galera sia stato Julien, con la compagnia di Pedro, Jaibo si vendica uccidendolo a bastonate. Della piccola Metche si innamora invece Occhietti, un ragazzino abbandonato dal padre in mezzo alla strada e che si occupa di un vecchio mendicante cieco che gli dà da mangiare. Quando si scopre in paese dell’omicidio di Julien, Pedro e Jaibo si preoccupano di non farsi la spia l’un l’altro. A notte però Pedro sogna di affrontare la mancanza d’affetto della madre nei suoi confronti ed al mattino dopo decide di cambiare vita facendosi assumere come aiutante da un lavoratore del ferro. Jaibo, dopo aver provato ad abusare di Metche, viene aiutato dal fratello di lei a trovarsi un posto sicuro e abbandonato dove nascondersi per un paio di giorni. A notte intanto, il padre di Julien si aggira per le strade ubriaco, desideroso di vendicare il figlio. La mattina dopo Jaibo va a trovare Pedro nella bottega e sottrae un coltello dal manico d’argento del qual furto è accusato lo stesso Pedro. Il ragazzo fugge dal paese per paura di essere accusato dell’omicidio di Julien, mentre Jaibo riesce a sedurre sua madre. In città per Pedro le cose si mettono peggio e, dopo essere scampato ad un tentativo di pedofilia davanti ad un salone di bellezza, si ritrova a muovere giostre, maltrattato dal datore di lavoro. Decide, dopo aver incontrato Occhietti, di far ritorno a casa ma la madre lo fa accusare del furto del coltello e lo manda in un istituto di correzione. Qui, dopo aver fatto a botte con alcuni ragazzi, Pedro è sottoposto ad un trattamento di fiducia da parte del direttore, che gli mostra la libertà del luogo consegnandogli 50 pesos e facendolo uscire dall’istituto. Fuori, ad attenderlo, c’è però Jaibo il quale gli ruba i soldi e scappa via. Pedro, dopo averlo raggiunto nella piazzetta principale, lo aggredisce e lo accusa davanti a tutti dell’omicidio di Julien. Jaibo scappa minacciando vendetta. A notte Pedro si rifugia nella stalla di Metche per dormire ma incontra Jaibo che lo uccide. Metche, avvertito il nonno dell’accaduto, è costretta a portar via il corpo del ragazzo assieme all’anziano parente. Jaibo intanto, accusato dal cieco, fa ritorno fra le rovine dove aveva preso dimora e, scoperto dalla polizia, è ucciso mentre tenta una fuga. A notte il corpo di Pedro viene buttato in una discarica.

Terza pellicola girata in Messico per il regista che scrisse le più importanti pagine del surrealismo cinematografico, e primo lavoro degno di nota in questo periodo della sua carriera. Più che I figli della violenza, il film si sarebbe potuto chiamare I figli della fame (anche se la traduzione letterale del titolo, I dimenticati, sarebbe quella ancor più corretta) poiché è questo uno degli aspetti più importante che Luis Bunuel si affanna a mettere in risalto in una storia che è vero che trasuda violenza ad ogni inquadratura, ma che soprattutto è fatta di miseria e incomprensione. Non sono infatti solo i fanciulli a mostrare violenza, ma qualsiasi personaggio della storia, ad esclusione del direttore dell’istituto agrario dove il ragazzo viene mandato per essere corretto, e che è proprio l’unico a capire che, con lo stomaco pieno e la fiducia, i ragazzi possono cambiare strada, modo di vivere. Purtroppo le sorti (e il contesto nel quale il giovane Pedro nasce e muore) non permettono nemmeno alle buone intenzioni del direttore di sortire gli effetti sperati (Jaibo, che rappresenta l’accanimento di una società violenta, lo perseguita infatti). Il finale, con il cadavere del fanciullo rovesciato fra l’immondizia, è emblematico in questo senso: non c’è via di scampo da questo marcio mondo (il mondo originario cui egli spesso fa riferimento nella costruzione dei suoi film, il fondale che si astrae e combina ogni ambiente in un’unica idea). Da questo punto di vista allora, la forza del regista sta nel non aver indugiato di fronte a nulla, nemmeno su un improbabile lieto fine, ma anzi, con la morte sporca del ragazzo, priva di una possibilità di redenzione (il fato gli si accanisce contro) mostra una crudeltà che gli è tipica, ma che è anche un monito forte a tutte le classi dirigenti. Rispetto al suo stile, Bunuel non rinuncia alle metafore ed ai simbolismi (notevole il sogno al rallenti con il pezzo di carne conteso con Jaibo) anzi, ne esaspera la potenza, rimanendo quindi nel contesto forte nel quale si muovono i protagonisti. Quando si diceva che nessuno è salvo, ci si riferiva anche alle figure della madre di Pedro (che capisce che può amarlo, ma lo fa in ritardo), a quella del cieco (che anche se aggredito, è comunque di carattere inumano, che prova ad abusare di Metche), a quella dell’uomo senza gambe (anche egli descritto senza alcuna forma di pietismo, anzi, facendo emergere in lui qualcosa di marcio che non lo diversifica dagli altri) fino anche a quelle dell’anziano contadino (che per non avere problemi con la polizia butta il corpo del ragazzo in una discarica). Anche un estraneo alla storia, come l’uomo ricco che abborda Pedro davanti al salone di bellezza, è colpevole alla pari di Jaibo, e di tutti gli altri che un paese soffocato dalla fame, dall’ignoranza e dalla miseria, non può far altro che crescere fino alla violenta morte per cui sembra averli portati al mondo. Ciò che se ne deduce quindi è che in un film come quello cui I figli della violenza rimanda, quello che vorrebbe una situazione di giovane delinquenza sulla quale una la morale spesso si piega a proprio servizio, nelle mani di Bunuel perde ogni consistenza moralistica, s’impoverisce di ogni pedagogia, perché racconta la realtà in tutta la sua crudeltà (in questo film più, come sempre, mai gratuita). Molto bravi tutti gli attori (non professionisti) nel riprodurre la disperazione in strada di vite solitarie che si incontrano attraverso contatti congiunturali, e che in realtà sono disposti ad uccidersi a vicenda. Una pellicola notevole, di rara crudeltà oggettiva, e violento è soprattutto lo stile del regista, sul quale se si hanno dubbi, basterebbe vedere il gesto di Pedro che lancia l’uovo verso l’obiettivo della macchina da presa. Un gesto di sfida, di rifiuto per una realtà insopportabile (è un film che del neorealismo ne ha soprattutto la coscienza, ma anche il tema dei bambini) che porta gli uomini ad uccidere (anche se si dovesse trattare di galline) ed al quale è impossibile sfuggire (la fuga di Pedro dal paese che si trasforma in condanna con le giostre). È un film senza speranza, drammatico, ma assolutamente sincero. Come lo ha ben definito il critico francese André Bazin, è ancora più al di là del bene e del male, siamo al di là della felicità e della pietà [i]. Pieno zeppo non solo di allusioni sessuali ma di sequenze capaci di unire il disgusto per l’assioma amore(come disperazione)/morte (come salvezza), il film di Bunel ottenne un premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1951, anche se gran parte del risultato si deve all’ottima fotografia di Gabriel Figueroa. La scena dell’aggressione al cieco potrebbe aver influenzato quella iperrealista di Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick, quando il gruppo di Alex aggredisce il barbone in strada.

 

 

Bucci Mario

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[i] André Bazin. Che cosa è il cinema? Garzanti. pg. 204