I figli della violenza. Luis Bunuel. 1950. MESSICO.
Attori: Estela Inda, Miguel
Inclán, Alfonso Meija, Roberto Cobo, Alma Delia Fuentes, Mario Ramirez, Javier
Amezcua
Durata: 88’
Titolo originale : Los olvidados
Città del Messico. Un gruppo di
ragazzini, capeggiati dall’appena uscito di prigione Jaibo, il più grande di
tutti, semina il terrore per le affamate strade delle periferiche baraccopoli.
Tra loro, Jaibo fa affidamento sull’amico Pedro, figlio non voluto di una
vedova, e al fratello di Metche, entrambi figli di una donna malata che vive
con l’anziano padre. Sicuro che ad accusarlo e a fargli fare la galera sia
stato Julien, con la compagnia di Pedro, Jaibo si vendica uccidendolo a
bastonate. Della piccola Metche si innamora invece Occhietti, un ragazzino
abbandonato dal padre in mezzo alla strada e che si occupa di un vecchio
mendicante cieco che gli dà da mangiare. Quando si scopre in paese
dell’omicidio di Julien, Pedro e Jaibo si preoccupano di non farsi la spia l’un
l’altro. A notte però Pedro sogna di affrontare la mancanza d’affetto della
madre nei suoi confronti ed al mattino dopo decide di cambiare vita facendosi
assumere come aiutante da un lavoratore del ferro. Jaibo, dopo aver provato ad
abusare di Metche, viene aiutato dal fratello di lei a trovarsi un posto sicuro
e abbandonato dove nascondersi per un paio di giorni. A notte intanto, il padre
di Julien si aggira per le strade ubriaco, desideroso di vendicare il figlio.
La mattina dopo Jaibo va a trovare Pedro nella bottega e sottrae un coltello
dal manico d’argento del qual furto è accusato lo stesso Pedro. Il ragazzo
fugge dal paese per paura di essere accusato dell’omicidio di Julien, mentre
Jaibo riesce a sedurre sua madre. In città per Pedro le cose si mettono peggio
e, dopo essere scampato ad un tentativo di pedofilia davanti ad un salone di
bellezza, si ritrova a muovere giostre, maltrattato dal datore di lavoro. Decide,
dopo aver incontrato Occhietti, di far ritorno a casa ma la madre lo fa
accusare del furto del coltello e lo manda in un istituto di correzione. Qui,
dopo aver fatto a botte con alcuni ragazzi, Pedro è sottoposto ad un
trattamento di fiducia da parte del direttore, che gli mostra la libertà del
luogo consegnandogli 50 pesos e facendolo uscire dall’istituto. Fuori, ad attenderlo,
c’è però Jaibo il quale gli ruba i soldi e scappa via. Pedro, dopo averlo
raggiunto nella piazzetta principale, lo aggredisce e lo accusa davanti a tutti
dell’omicidio di Julien. Jaibo scappa minacciando vendetta. A notte Pedro si
rifugia nella stalla di Metche per dormire ma incontra Jaibo che lo uccide.
Metche, avvertito il nonno dell’accaduto, è costretta a portar via il corpo del
ragazzo assieme all’anziano parente. Jaibo intanto, accusato dal cieco, fa
ritorno fra le rovine dove aveva preso dimora e, scoperto dalla polizia, è
ucciso mentre tenta una fuga. A notte il corpo di Pedro viene buttato in una
discarica.
Terza pellicola girata in Messico
per il regista che scrisse le più importanti pagine del surrealismo
cinematografico, e primo lavoro degno di nota in questo periodo della sua
carriera. Più che I figli della violenza,
il film si sarebbe potuto chiamare I
figli della fame (anche se la traduzione letterale del titolo, I dimenticati, sarebbe quella ancor più
corretta) poiché è questo uno degli aspetti più importante che Luis Bunuel si
affanna a mettere in risalto in una storia che è vero che trasuda violenza ad
ogni inquadratura, ma che soprattutto è fatta di miseria e incomprensione. Non
sono infatti solo i fanciulli a mostrare violenza, ma qualsiasi personaggio
della storia, ad esclusione del direttore dell’istituto agrario dove il ragazzo
viene mandato per essere corretto, e che è proprio l’unico a capire che, con lo
stomaco pieno e la fiducia, i ragazzi possono cambiare strada, modo di vivere.
Purtroppo le sorti (e il contesto nel quale il giovane Pedro nasce e muore) non
permettono nemmeno alle buone intenzioni del direttore di sortire gli effetti
sperati (Jaibo, che rappresenta l’accanimento di una società violenta, lo
perseguita infatti). Il finale, con il cadavere del fanciullo rovesciato fra
l’immondizia, è emblematico in questo senso: non c’è via di scampo da questo
marcio mondo (il mondo originario cui
egli spesso fa riferimento nella costruzione dei suoi film, il fondale che si astrae
e combina ogni ambiente in un’unica idea). Da questo punto di vista allora, la
forza del regista sta nel non aver indugiato di fronte a nulla, nemmeno su un
improbabile lieto fine, ma anzi, con la morte sporca del ragazzo, priva di una
possibilità di redenzione (il fato gli si accanisce contro) mostra una crudeltà
che gli è tipica, ma che è anche un monito forte a tutte le classi dirigenti.
Rispetto al suo stile, Bunuel non rinuncia alle metafore ed ai simbolismi
(notevole il sogno al rallenti con il pezzo di carne conteso con Jaibo) anzi,
ne esaspera la potenza, rimanendo quindi nel contesto forte nel quale si
muovono i protagonisti. Quando si diceva che nessuno è salvo, ci si riferiva
anche alle figure della madre di Pedro (che capisce che può amarlo, ma lo fa in
ritardo), a quella del cieco (che anche se aggredito, è comunque di carattere
inumano, che prova ad abusare di Metche), a quella dell’uomo senza gambe (anche
egli descritto senza alcuna forma di pietismo, anzi, facendo emergere in lui
qualcosa di marcio che non lo diversifica dagli altri) fino anche a quelle
dell’anziano contadino (che per non avere problemi con la polizia butta il
corpo del ragazzo in una discarica). Anche un estraneo alla storia, come l’uomo
ricco che abborda Pedro davanti al salone di bellezza, è colpevole alla pari di
Jaibo, e di tutti gli altri che un paese soffocato dalla fame, dall’ignoranza e
dalla miseria, non può far altro che crescere fino alla violenta morte per cui
sembra averli portati al mondo. Ciò che se ne deduce quindi è che in un film
come quello cui I figli della violenza
rimanda, quello che vorrebbe una situazione di giovane delinquenza sulla quale
una la morale spesso si piega a proprio servizio, nelle mani di Bunuel perde
ogni consistenza moralistica, s’impoverisce di ogni pedagogia, perché racconta
la realtà in tutta la sua crudeltà (in questo film più, come sempre, mai
gratuita). Molto bravi tutti gli attori (non professionisti) nel riprodurre la
disperazione in strada di vite solitarie che si incontrano attraverso contatti
congiunturali, e che in realtà sono disposti ad uccidersi a vicenda. Una
pellicola notevole, di rara crudeltà oggettiva, e violento è soprattutto lo
stile del regista, sul quale se si hanno dubbi, basterebbe vedere il gesto di
Pedro che lancia l’uovo verso l’obiettivo della macchina da presa. Un gesto di
sfida, di rifiuto per una realtà insopportabile (è un film che del neorealismo ne ha soprattutto la
coscienza, ma anche il tema dei bambini) che porta gli uomini ad uccidere
(anche se si dovesse trattare di galline) ed al quale è impossibile sfuggire
(la fuga di Pedro dal paese che si trasforma in condanna con le giostre). È un
film senza speranza, drammatico, ma assolutamente sincero. Come lo ha ben
definito il critico francese André Bazin, è ancora più al di là del bene e del
male, siamo al di là della felicità e della pietà [i]. Pieno
zeppo non solo di allusioni sessuali ma di sequenze capaci di unire il disgusto
per l’assioma amore(come disperazione)/morte (come salvezza), il film di Bunel
ottenne un premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1951, anche se
gran parte del risultato si deve all’ottima fotografia di Gabriel Figueroa. La
scena dell’aggressione al cieco potrebbe aver influenzato quella iperrealista
di Arancia meccanica (1971) di
Stanley Kubrick, quando il gruppo di Alex aggredisce il barbone in strada.
Bucci Mario
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